Liberi per un giorno. Come le note della musica

L’emozione di uno spettacolo all’interno delle mura carcerarie: da paura e diffidenza ad entusiasmo e coinvolgimento.

Lucio Treu

ImmagineL’esperienza che mi aspetta oggi mi rende nervoso e conoscere i miei nuovi compagni di viaggio, Gabri, Francesco e Alessandro, bevendo insieme un caffè, non ha stemperato la mia agitazione.
Se dovessi girare un documentario giornalistico, userei una musica da thriller. Per fortuna, non si sente alcuna musica nel nostro tragitto, altrimenti proverei ben altro che agitazione… Mi ritrovo, però, a pensare che, di lì a poco, la musica sarebbe uscita dalla mia vita per almeno due ore. Infatti, già all’entrata del carcere, dove abbiamo lasciato le carte d’identità come fossimo in un hotel, smettiamo all’unisono di chiacchierare scherzosamente e iniziamo in silenzio questa nuova avventura prendendo la prima rampa di scale. Ne avremmo fatte molte e senza indugiare.
Le scale con i gommini antiscivolo si salgono comodamente e mi ricordano quelle di un collegio. Mi viene ora in mente che in gioventù ne frequentai due, in realtà un collegio salesiano e un convitto. Comunque, le scale fanno capire che la strada ti può portare in due direzioni: “dentro” o “fuori”. Di sicuro, “fuori” significa libertà, all’aria aperta, libero di andare a destra o a sinistra.
Finite le prime rampe di scale, due agenti ci fanno entrare in un lungo corridoio, alla fine del quale ci fermiamo. Il rumore di una grande porta blindata elettrica con lo “slam” di chiusura ci isola definitivamente dal mondo esterno.
Ora si sente un rumore di chiavi, tante chiavi e molto pesanti: sono quelle che un agente silenzioso sbatte su una porta a sbarre. Le chiavi, non ci pensiamo mai, ci accompagnano tutta la vita e da noi diventano inseparabili, marcando le tappe della nostra crescita. Diventi grande quando i genitori ti danno le chiavi di casa che terrai tutta la vita; ti realizzi quando puoi esibire il portachiavi della tua prima macchina; la prima cosa che ti danno nella tua nuova casa è un mazzo di chiavi per entrata e garage. La chiave è il tuo segno connotativo, la tua identità in evoluzione.
Quel suono di chiavi sbattute sul ferro consumato mi riporta alla mente il momento preciso in cui, parecchi anni or sono, arrivai in quel convitto dove avrei passato tre lunghi anni della mia vita. Il mio armadietto personale si trovava di fronte al mio letto, in una stanza al quarto piano, e la sua chiave sarebbe diventata la mia tredicesima costa, una parte di me.
Lo inaugurai non appena arrivato, dopo aver fatto conoscenza con un mio compagno di classe, il primo ad aver raggiunto la camera.
Era un carabiniere siciliano, lì suo malgrado poiché aveva perso la vista in Medio Oriente, a causa di un virus mentre era in missione come autista di un ufficiale. Indossava un golf con abbottonatura bassa, cravatta, pantaloni rigorosamente con la riga e baffetto ben curato. Gli davo 35 anni e quindi lo ammiravo per essersi voluto rimettere sui banchi di scuola alla sua età per studiare da fisioterapista. Con le chiavi in mano aprii lo stipetto e, immediatamente, ne analizzai gli spazi: il vano basso era aperto, ci sarebbero state le scarpe, nel cassetto chiuso avrei messo la biancheria e un po’ di solitudine…, quello ampio era adatto per i giubbotti, in quello superiore avrei sistemato le cassette con le registrazioni delle lezioni. Ero certo, però, che, al suo interno, non avrei trovato lo stesso profumo di mela cotogna che sentivo quando spalancavo la porta dell’armadio di legno posto al centro della camera della nonna, con la chiave a forma di anello e lo specchio grande incollato, in quel gioco furtivo di bambino alla
scoperta di chissà quale segreto.
A braccetto con Gabri, passiamo davanti alle celle dei detenuti. Mi chiedo se anche loro abbiano uno stipetto con tutto il loro mondo contenuto al suo interno. In realtà, ne dubito. Non credo che per loro sia possibile possedere una chiave. Il loro mondo è rimasto forzatamente tutto fuori. Tra quelle mura l’identità non esiste più.
La sala dove Francesco avrebbe tenuto una lezione sulla lettura contiene un lungo tavolo da conferenze, dietro al quale prendono posto i “volontari”, i ragazzi che, per curiosità, hanno deciso di partecipare a questo incontro. Vengono alla spicciolata, ma uno arriva molto prima degli altri perché non ha usufruito dell’ora d’aria.
“Sono qua dentro da cinque anni e l’aria fuori è sempre la stessa!” ci dice.
Anche se siamo a Trieste, non soffia la bora. Splende il sole e non fa tanto freddo. Non nevica, come ha fatto la settimana scorsa. Qualche raro fiocco per ricordarci che l’inverno non è per niente finito.
La neve… Chi si dimentica della nevicata del 1985, quando, finite le lezioni, prendemmo l’uscita secondaria dell’istituto per andare nel campo di calcio e fare a palle di neve! Con tutta quell’imbiancata, ogni ostacolo era sparito, ogni scalino si era azzerato. Anche un cieco poteva entrare in campo correndo alla grande.
“Tira basso, non voglio prendere palle in faccia!” ricordo che gridai a Tetè, un cieco di Bergamo.
Che gioia, quel pomeriggio. C’era un bel silenzio. La Padova dei rumori industriali era lontana, si sentivano solo i latrati dei cani portati in passeggiata sull’argine di un rigagnolo che arrivava nelle vicinanze di Abano Terme. Poi, come rito, si mangiava la neve. La neve è buonissima, anche se non sa di niente. Anche un cieco sa che la neve è bianca e il mio amico bergamasco ne mangiava voracemente, fregandosi di questa mia considerazione fatta a voce alta.
“Ma la rugiada, Tetè, non è bianca come la neve. È più tenue e comincia a prendere il colore dei prati verdi. Quando si alza il sole, comincia a brillare come l’oro e poi, Tetè, ha un profumo meraviglioso, racchiude tutti i profumi della campagna mescolati con quelli dell’umidità della mattina”.
“Bello” – mi disse – “Ma a che ora è il pranzo?”.
“Con te è una battaglia inutile, solo a mangiare pensi!”. In quel momento ero proprio come Schroeder mentre suona sconsolato al piano, con Snoopy che ronfa disteso.
“Stanno arrivando” – penso tra me e me, quando ci vengono tutti incontro e ci stringono le mani. Che mani calde hanno! La mia è fredda per la tensione. Devono essere rientrati da un pezzo dall’ora d’aria per avere le mani così calde. Le mani non mentono, sono come lo sguardo. Tradiscono emozioni, ti dicono se stai bene o se sei a disagio e, quando sono troppo calde, ti dicono che un po’ di rabbia, dentro, ce l’hai.
Francesco, già entrato nella parte, inizia la sua lezione di teatro mentre ancora i volontari si sistemano: anche un saluto, una battuta fanno parte di una scena. Le parole di Francesco ci trasportano nel suo mondo di attore e doppiatore. A poco a poco, tutti siamo ipnotizzati da un’altalena di emozioni, dapprima spettatori incantati da citazioni letterarie, poco dopo coinvolti a bruciapelo da domande che non lasciano scampo. A volte, sento i ragazzi messi alle corde di fronte a quesiti sulla vita, sull’amore, su come la parola abbia forza a seconda di come esce dalla nostra bocca.
L’intenzione è inutile se poi non la traduciamo con un atto concreto. Significa usare la voce come una nota da suonare, tanto che il nostro corpo diventa uno strumento che intona, fa vibrare a nostro piacimento, con delicatezza o con grande impeto. “Anche il silenzio è importante, più di mille parole” – ci ammonisce Francesco.
Ha ragione. In realtà, il silenzio è una nota, fondamentale in uno spartito. Crea l’attesa, ci lascia in uno stato di sospensione, aumenta l’aspettativa in ciò che segue. Così, mi viene in mente John Cage, musicista rivoluzionario del XX secolo, che fece del silenzio una bandiera filosofica, intitolando un brano “4:33”, la durata di un’esecuzione nella quale tutti gli strumenti simulano di suonare senza emettere alcun suono. Anche questo, quasi un momento di teatro più che un brano musicale.
Francesco insiste sul concetto di pausa, quasi un’ossessione. In effetti, quanto sarebbe banale una frase d’amore se la dicessimo di fretta, senza quelle pause che la rendono calda e sentita. “Gli uomini si innamorano con gli occhi, le donne s’innamorano con le orecchie, diceva Oscar Wilde” – declama il nostro amico, da attore navigato.
Ormai tutti cominciamo a sentirci a nostro agio nuotando nel mare di aneddoti e personaggi conosciuti durante la sua carriera. Nuotiamo con lui tra caricature e citazioni tambureggianti. Siamo anche noi in scena e le ansie del debutto si stanno affievolendo.
Alla fine di questa prima parte dell’incontro, i detenuti apprendono nel dettaglio quale sia il progetto al quale avrebbero partecipato. Gabri, promotrice del progetto con una Onlus, spiega che, con la guida di Francesco, avrebbero letto alcune fiabe. In seguito, queste sarebbero state registrate e messe in rete, in modo tale da consentire ai loro cari, ai loro figli, di poterli ascoltare in una veste nuova.
Nella seconda parte dell’incontro, quando le diffidenze, le barriere e i pregiudizi iniziano, finalmente, a sgretolarsi, introduciamo la prima fiaba. Non nascondo che il pregiudizio su come una fiaba possa risultare di qualche interesse per loro è molto forte. È difficile pensare che una storia per bambini riesca a vincere delle inveterate resistenze culturali.
“Roba da donnette” – questa frase me la immagino frullare nelle loro menti.
Mi sbaglio. Questo momento di lettura collettiva ha, invece, il potere di creare un grande spirito di squadra, di solidarietà, di “genitorialità” comune. Inaspettatamente, si manifesta anche un momento di “genitorialità” invertito, quando il più alto tra di loro chiede di leggere un passo di un libro, scritto di suo pugno, che tratteggia il carattere del padre, le incomprensioni, un commovente sentimento di pacificazione.
Durante le letture successive si definiscono sempre più distintamente le loro capacità, provenienza, intenzioni, titubanze, spavalderie, dubbi, scontrosità. Ognuno appare chiaro agli altri, come si trovasse sotto la luce del sole, in una sorta di primo piano cinematografico, con il suo carattere e la sua storia. In questo, Roberto li ha ben preparati, spiegando che la parola porta con sé la sua “verità“.
Ora si fa veramente sul serio e tutti, con il testo della prima fiaba in mano, non vedono l’ora di mettersi in gioco. Sono proprio io ad introdurla, presentando i personaggi che ho io stesso creato e svelandone il protagonista: un drago violoncellista, sotto le cui sembianze è costretta ad apparire una regina in virtù di un incantesimo.
Ora la musica sta finalmente rientrando nella mia vita. È rimasta fuori dalla porta d’acciaio per un interminabile periodo di due ore, ma, un po’ alla volta, flebilmente, comincia a riapparire. Le melodie per violoncello, create come sottofondo, e quindi registrate da Marco, musicista e arrangiatore, mi risuonano nell’anima come un mantra.
Quelle note e quelle parole possono rappresentare, per questi ragazzi, le pecore su cui aggrapparsi per fuggire dall’isola nella quale si trovano prigionieri, sfuggendo, così, all’ira del ciclope. Sono il cavallo di Troia che li può trasportare in un mondo più leale e poetico.
Le ultime parole della fiaba sono “libero come le note della musica”. Esse mi appaiono così incredibilmente appropriate in questo contesto, fatalmente utili in questo giorno, in queste due ore di vera speranza.

di Lucio Treu,

autore, vincitore di molteplici premi letterari nazionali

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