Dieta mediterranea: la prevenzione cardiovascolare

Pochi sanno come abbiano avuto origine gli studi sullo stile di vita del Sud Europa. Vale la pena ripercorrere questa storia perché ci sono voluti molti anni per comprenderne a fondo i benefici. Oggi ne conosciamo i benefici, ma rischiamo di perderli perché le nostre abitudini sono notevolmente cambiate

Simona Giampaoli, Luigi Palmieri, Chiara Donfrancesco, Serena Vannucchi, Diego Vanuzzo

1 Istituto Superiore di Sanità, Roma

2 Centro di Prevenzione Cardiovascolare, ASS 4 “Friuli Centrale”, Udine

Più o meno 50 anni fa, quando se n’è cominciato a parlare, per alimentazione mediterranea si intendeva “…l’alimentazione quotidiana della gente comune a Napoli: minestrone fatto in casa; pasta di qualsiasi tipo, sempre appena scolata, servita con salsa di pomodoro e una spolverata di parmigiano, solo occasionalmente arricchita con qualche pezzettino di carne o pesce, in questo caso senza formaggio; un piatto di fagioli e maccheroni; molto pane, mai con l’aggiunta di burro; grandi quantità di verdura fresca; una piccola porzione di carne o di pesce non più di due volte a settimana; vino; sempre frutta fresca come dolce. Per la prevenzione delle malattie cardiovascolari sarebbe difficile fare qualcosa di più che imitare l’alimentazione della gente comune di Napoli dei primi anni ‘50”. Così la descrivevano Ancel and Margaret Keys nel loro libro “How to Eat Well and Stay Well. The Mediterranean Way” pubblicato nel 1975. Si tratta di due ricercatori americani di Minneapolis che hanno vissuto una lunga parte della loro vita a Pioppi, nel Cilento, capitale della dieta mediterranea. E’ curioso scoprire che i due ricercatori non parlavano di dieta mediterranea, bensì di stile mediterraneo, includendo, assieme alla descrizione di abitudini alimentari, anche ricette locali ed altre caratteristiche della popolazione mediterranea. Simili abitudini alimentari venivano descritte nella popolazione di Nicotera in Calabria da Flaminio e Adalberta Fidanza. Anche in questa località i livelli di colesterolo nella popolazione erano bassi e l’infarto del miocardio era praticamente inesistente.

Pochi sanno come abbiano avuto origine gli studi sull’alimentazione e sullo stile di vita mediterraneo. Vale la pena ripercorrere questa storia perché ci sono voluti molti anni per comprenderne a fondo i benefici. Oggi, ad anni di distanza, ne conosciamo i benefici, ma rischiamo di perderli perché le nostre abitudini alimentari sono notevolmente cambiate.

Nei primi anni ’50, durante il soggiorno sabbatico a Oxford, Ancel Keys e la moglie Margaret furono incuriositi dall’affermazione del Professor Bergami di Napoli, secondo il quale gli attacchi cardiaci (così allora veniva identificato l’infarto del miocardio) erano rari in quella città. I coniugi Keys decisero, pertanto, di trascorrere a Napoli un periodo nell’inverno compreso fra il 1951 ed il 1952 e di dedicarsi allo studio della relazione tra l’alimentazione e l’infarto del miocardio. Molto di quello che sappiamo oggi sulle differenze individuali e culturali nel rischio di infarto cominciò con semplici raffronti: nell’area campana gli operai e le persone più povere, che si nutrivano con un’alimentazione tipicamente mediterranea, avevano bassi livelli di colesterolemia e la malattia coronarica, di fatto, non esisteva. Al contrario, coloro i quali appartenevano alla classe sociale più elevata avevano alti valori di colesterolemia e alta frequenza di malattie coronariche, simili a quelli registrati nella popolazione nordamericana. I coniugi Keys passarono poi in Sud Africa per eseguire dei raffronti tra gli Europei emigrati in quelle terre e i gruppi etnici di colore, trovando ulteriore conferma della relazione fra alimentazione, colesterolemia e malattie coronariche. Un successivo apporto avvenne con il loro soggiorno in Giappone nel 1956, dove condussero uno studio per confrontare fra loro Giapponesi di diverse classi sociali. Ancel e Margaret Keys si convinsero che l’alimentazione in Giappone era altrettanto sana, tanto è vero che lo annotarono anche nel loro libro. Compresero anche, però, che allora tale alimentazione non sarebbe stata facilmente praticabile nei Paesi occidentali.

Studi più recenti (Ni-Hon-San Study, Honolulu Heart Study) condotti da altri ricercatori hanno confrontato la popolazione giapponese emigrata a Honolulu e a Los Angeles: i Giapponesi residenti nel Paese d’origine confrontati con quelli emigrati differivano di molto sotto il profilo cardiovascolare, dimostrando la scarsa influenza della genetica e l’importanza nel cambiamento dello stile di vita, in particolare dell’alimentazione, a seguito dell’emigrazione.

A queste prime osservazioni ne seguirono altre, più coordinate, in particolare il Seven Countries Study, lo Studio dei Sette Paesi, ideato con l’obiettivo di comprendere se le differenze di frequenza della malattia coronarica riscontrate nei vari Paesi potessero essere attribuite alla differente alimentazione. Furono arruolate popolazioni in Italia, Grecia, Olanda, Stati Uniti, Giappone, Finlandia ed ex-Jugoslavia. Poco più di 12.000 uomini di età compresa fra 40 e 59 anni vennero esaminati e seguiti per molti anni (40 anni e più). L’Italia contribuì con due coorti di popolazione di Crevalcore e Montegiorgio ed una coorte lavorativa arruolata fra i lavoratori delle Ferrovie dello Stato.

Già dai primi anni di osservazione fu chiarito il ruolo centrale dell’alimentazione nella determinazione del colesterolo nel sangue: lo scarso consumo di grassi di origine vegetale (grassi polinsaturi e monoinsaturi – olio di oliva) e l’elevato consumo di grassi di origine animale (grassi saturi) e, in particolare, il loro rapporto, erano alla base dell’aumento della colesterolemia nelle popolazioni del Nord Europa e degli Stati Uniti. Chiara fu, quindi, la relazione della colesterolemia con l’infarto dovuta all’alimentazione a livello sia di popolazione (elevati livelli medi di colesterolemia negli USA, in Finlandia e in Olanda erano accompagnati ad alta frequenza di cardiopatia coronarica; al contrario, bassi valori di colesterolemia in Italia, Grecia e Giappone erano accompagnati a bassi tassi di cardiopatia coronarica), sia individuale (elevati livelli di colesterolemia nei singoli individui erano indicativi di più alta probabilità di andare incontro ad infarto del miocardio).

Attenzione era stata rivolta anche verso altri fattori di rischio, come la pressione arteriosa: a questa era stato riconosciuto un ruolo causale importante verso le malattie cardiovascolari. All’epoca, però, ancora non era stato riconosciuto il ruolo altrettanto importante dell’alimentazione nello sviluppo dell’ipertensione.

Ancel Keys aveva comunque notato nell’area mediterranea un’alimentazione ricca di sale ed alcool (consumo abituale di vino ai pasti) e che si cominciava a consumare un eccesso di calorie, con una conseguente tendenza verso il sovrappeso/obesità. Evidentemente, già qualcosa stava modificandosi.

Non era stato però evidenziato che in Italia (e in Giappone), nonostante i bassi tassi di cardiopatia coronarica, l’incidenza di ictus era alta, addirittura superiore a quella degli Stati Uniti.

Studi più recenti, condotti negli ultimi 25 anni, coordinati da Jeremiah Stamler, hanno identificato la relazione tra pressione arteriosa e consumo di sodio (sale) nell’alimentazione, il ruolo del potassio e del sodio nei confronti della pressione arteriosa – Studio INTERSALT, International Study on Salt and Blood Pressure – e focalizzato l’attenzione verso alcuni minerali (calcio, magnesio, potassio, ferro di origine vegetale), le fibre, le vitamine e altri macronutrienti – Studio INTERMAP, International Study on macro-micro-nutrientes and Blood Pressure – tutti positivamente legati alla pressione arteriosa.

Tutti questi studi hanno incentrato l’attenzione su molteplici fattori alimentari che influenzano la pressione arteriosa e la colesterolemia e costituiscono il fondamento scientifico del concetto moderno di alimentazione mediterranea del XXI secolo, più volte espresso da Jeremiah Stamler (J. Stamler. Toward a Modern Mediterranean Diet for 21st Century. 2013 Nutrition Metabolism and Cardiovascular Diseases, 23:1159-1162): riduzione del consumo di sale, consumo moderato di vino (solo per coloro i quali lo desiderano), elevato consumo di potassio, calcio, magnesio, fosforo, ferro, acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6, proteine di origine vegetale. L’alimentazione mediterranea “classica”, specialmente in vista della tendenza attuale verso l’aumento dei fattori di rischio cardiovascolare di origine metabolica, va quindi rivisitata in modo da evitare o ridurre i possibili inconvenienti: minor apporto di calorie (quante calorie sono necessarie al giorno per un’alimentazione sana e bilanciata?), minor consumo di grassi (qual è la proporzione rispetto alle calorie totali?), minor consumo di vino o altri alcoolici (quale la quantità raccomandata?), moderato consumo di sale (quanto e come calcolare la quantità presente nei cibi?).

Notevoli sono stati i cambiamenti verificatisi negli ultimi 50 anni: l’industrializzazione, associata alla migrazione dalle aree rurali a quelle urbane; l’evoluzione verso mansioni lavorative con minore livello di attività fisica; la maggiore disponibilità di cibo con la conseguente modifica della proporzione dei vari nutrienti rispetto alle calorie totali – riduzione di proteine e grassi di origine vegetale associata ad incremento di proteine e grassi di origine animale, zuccheri semplici (bevande zuccherine) e conseguente riduzione della quantità di fibre e vitamine. Lo squilibrio derivato dall’eccessiva alimentazione e dal ridotto dispendio calorico ha portato al manifestarsi di condizioni e disturbi quali obesità, diabete e ad un aumento di malattie cardiovascolari e dei tumori. Variazioni verificatesi in Italia tra gli anni ’60 e il 2000 sono ben documentate dall’indagine condotta a Nicotera, Calabria, da De Lorenzo e Fidanza. Questi hanno evidenziato una riduzione del consumo di cereali, legumi e vegetali ed un aumento del consumo di carni, formaggi e dolci. Analoghi risultati sono documentati anche nelle coorti italiane già osservate dal Seven Countries Study, esaminate negli anni ’60 e riesaminate negli anni ’90 (riduzione del consumo di cereali ed aumento del consumo di formaggi, latte e dolci).

Valutare in quale misura i vari cambiamenti alimentari abbiano influito sul piano nutrizionale come beneficio (allungamento della vita media e scomparsa della malnutrizione) e sul piano epidemiologico come costo (aumento dei fattori di rischio) è difficile.

Non va dimenticato che le calorie oggi mediamente consumate sono maggiori rispetto agli anni ’60, nonostante la notevole riduzione dell’attività fisica, in particolare di quella lavorativa, che più incide nel dispendio calorico, essendo quella preminente nella giornata.

L’alimentazione mediterranea è salutare, non ci sono più dubbi. Risultati importanti sono stati pubblicati sullo studio DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension): un limitato consumo di sodio (non più di 5 g al giorno) associato ad un’alimentazione ricca di frutta e verdura, legumi e cereali integrali, alimenti a basso contenuto di grassi, come pesce, pollame, con scarsa quantità di carni rosse e carni processate, dolci e bevande zuccherine, riduce la pressione arteriosa negli ipertesi e nella popolazione generale, nonché il livello di colesterolo nel sangue. Queste caratteristiche sono molto vicine a quelle della popolazione italiana degli anni ’60 e a quelle descritte da Ancel e Margaret Keys e da Flaminio e Adalberto Fidanza. A queste vale la pena di rifarsi se vogliamo mantenere alla dieta mediterranea il primato della buona e sana alimentazione.

Non è comunque utile separare abitudini alimentari, attività fisica e abitudine al fumo che rappresentano i tre cardini per uno stile di vita sano. Il rischio di malattia, che aumenta con l’avanzare dell’età, ne può risultare, almeno in gran parte, controllato.

Angela Caporale

Giornalista pubblicista dal 2015, ha vissuto (e studiato) a Udine, Padova, Bologna e Parigi. Collabora con @uxilia e Socialnews dall’autunno 2011, è caporedattrice della rivista dal 2014. Giornalista, social media manager, addetta stampa freelance, si occupa prevalentemente di sociale e diritti umani. È caporedattore della rivista SocialNews in formato sia cartaceo che online, e Social media manager. 

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