Tra lacune e potenzialità

di Giulia Angelon

Intervista alla Dottoressa Luana Marghi, psicologa, psicoterapeuta, consulente in sessuologia clinica e libera professionista a Trieste. Dal 2007 si occupa di psicologia forense, prevalentemente in qualità di Consulente Tecnico per i Tribunali della Regione Friuli Venezia Giulia

Le relazioni giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella strutturazione della personalità. I danni ‘morali’ della sofferenza soggettiva o ‘fisici’, legati a lesioni oggettive, non rappresentano gli unici effetti della Giustizia, o presunta tale, sui minori. Molte sono le connessioni e le correlazioni fra problemi evolutivi e adulti, tra fattori psicologici e patologie somatiche. Si rende necessaria una riflessione, se non, addirittura, l’elaborazione di modelli credibili che tengano conto dei molteplici aspetti ed effetti della Giustizia sul benessere psichico dei minori.
Dottoressa Marghi, qual è il suo punto di vista sulla tutela psicologica del minore in un contesto che vede il prevalere di una visione “adultocentrica”?
Va, innanzitutto, ricordato che il principio guida di ogni decisione che coinvolge i minori è quello stabilito dall’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo. Questo stabilisce che, in ogni intervento sui bambini, il loro interesse superiore deve essere preminente. In ossequio a questo principio sono state proposte numerose linee guida e documenti psicoforensi, frutto di un approccio interdisciplinare (la Carta di Noto, la Convenzione di Lanzarote, la Carta di Civitanova Marche, il Protocollo di Milano, ecc.). Vi è, dunque, un’attenzione professionale rivolta ad una visione “bambinocentrica”, garantita dalla buona prassi e dalla formazione scientifica dei professionisti in materia. Eppure, si fatica ancora a far entrare quest’attenzione nell’istituzione, spesso travolta dalla necessità dell’urgenza e ancorata a modelli di intervento ormai superati. Lavoro in ambito civile e lì posso osservare come sia difficile, per gli adulti, mantenere una lucida percezione del ruolo genitoriale durante la riorganizzazione familiare che comporta la separazione. Spesso, sfugge l’idea che, oltre alla coppia coniugale, esiste una coppia genitoriale che non si può sciogliere nelle aule di un Tribunale. I figli sono attivamente coinvolti e triangolati nei conflitti intraconiugali: talvolta, uno dei due genitori sfrutta la dipendenza emotiva del figlio per intaccare il legame con l’altro genitore, fornendo messaggi ambigui o denigrandolo; altre volte, i figli assumono il ruolo di confidenti o di informatori, oppure sono coinvolti in manovre aggressive verso il genitore uscito di casa; altre volte, ancora, si assiste ad una vera e propria inversione di ruolo, dove sono i figli a prendersi cura dei genitori sofferenti. Sono casi in cui i bambini, coinvolti in alleanze e triangolazioni, finiscono per essere nemici proprio dell’“oggetto” desiderato e perduto. Il mancato investimento degli adulti nel ruolo genitoriale rappresenta uno dei punti più sofferti per i figli: non a caso, quando i figli sono fatti partecipi dai genitori delle difficoltà in corso e rassicurati da entrambi sulla loro continuità genitoriale, l’evento separativo viene superato meglio e prima.
Pensando al concetto di ‘responsabilità’ – genitoriale in primis – non necessariamente legato alla commissione di un reato in senso stretto, come ritiene possibile evidenziarne ed individuarne le caratteristiche?
I professionisti che, come me, operano in qualità di CTU nei Tribunali vengono spesso chiamati a valutare le competenze genitoriali in cause per l’affidamento dei figli. La genitorialità è una funzione complessa, presente nell’interpretazione dei bisogni, nella protezione e nell’accudimento dei figli. Una funzione dinamica, in evoluzione. Questo complica le cose perché i parametri che la definiscono possono essere appropriati o inadeguati, in momenti diversi, per uno stesso bambino. Di conseguenza, la “valutazione della capacità genitoriale” è una complessa attività di diagnosi che deve avvalersi dei contributi più recenti della psicologia clinica e dello sviluppo, della neuropsichiatria infantile, della psicologia familiare, sociale e giuridica e della psichiatria forense. Un approccio che focalizza l’attenzione sul diritto e sulla tutela del bambino è un approccio che studia la condizione psicorelazionale di tutti gli individui che compongono quel sistema familiare, avendo cura di individuarne punti di debolezza, di forza, aree di criticità, risorse ed eventuali spinte al cambiamento, utili ad attuare una metamorfosi evolutiva di segno positivo e a programmare un intervento realisticamente più opportuno. Se vogliamo rispondere alle esigenze dei figli, l’intervento non può che essere mirato a restituire la responsabilità genitoriale alle parti, ricomponendo la comunicazione tra loro, con e sui figli.
La sindrome di alienazione genitoriale – Parental Alienation Syndrome, PAS – è un fenomeno relativamente nuovo di cui si sente parlare in modo particolare nell’ambito giuridico e, più specificatamente, nelle dispute per l’affido dei figli. Può condividere con noi alcune riflessioni al riguardo?
Non entrerei nella polemica che ha contraddistinto la disputa scientifica su questo tema. Sottolineerei, piuttosto, il diritto dei bambini a rapportarsi in maniera armonica ed equilibrata con entrambi i genitori e le rispettive famiglie di origine. In molti casi di separazione in cui il conflitto intragenitoriale è così forte da far perdere di vista i reali bisogni dei figli, si può assistere, purtroppo, all’attuazione di comportamenti volti ad ostacolare il loro diritto alla bigenitorialità, fino a configurare, nei casi più gravi, situazioni di maltrattamento psicologico. Sono situazioni in cui le dinamiche di coppia si rivelano talmente disfunzionali da far sì che uno dei due genitori possa trasmettere al figlio l’ostilità verso l’altro, inducendolo ad uno schieramento. Ciò può accadere in forma diretta, quando il genitore trasmette attivamente al bambino i propri giudizi o gli fornisce informazioni parziali o distorte, o in forma indiretta, quando è il bambino ad appropriarsi delle reazioni emotive del genitore, magari in un intento compiacente. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che la separazione dei genitori è sempre un evento traumatico per i figli e che questi, soprattutto se ancora piccoli, cercheranno di far fronte al trauma con i mezzi a loro disposizione, cercando, ad esempio, di salvaguardare il loro legame affettivo primario, vittime di un legame di lealtà condizionante e disfunzionale. Accettiamo pure il fatto che la PAS non sia una sindrome. Questo non significa che non esista il fenomeno e che esso non possa portare a situazioni di maltrattamento tali da compromettere lo sviluppo psicoevolutivo del minore coinvolto.
L’alienazione genitoriale esiste e va trattata come un disturbo della relazione che coinvolge tutti i membri della famiglia (madre, padre e bambino), talvolta anche i membri della famiglia allargata. Negare il fenomeno significa aderire ad una disputa ideologica e dimenticare la tutela dei diritti relazionali dei bambini.
Quali sono e quanto sono frequenti i danni psicologici irreversibili?
Per fortuna, nella maggior parte dei casi, i disagi manifestati dai figli non durano a lungo. Questo a patto che non permanga una problematica aperta fra gli ex coniugi, cosa che, da un punto di vista psicologico, equivale ad avere una coppia emotivamente non separata. Se i genitori sono in grado di dimostrare equilibrio e maturità, garantendo ai figli il sostegno emotivo di cui necessitano, dopo circa un anno e mezzo dalla separazione i bambini ritrovano un certo equilibrio. Viceversa, il protrarsi dei disturbi comportamentali è generalmente legato al protrarsi del conflitto intragenitoriale: laddove il conflitto permanga per anni, infatti, i figli rischiano di venir coinvolti in alleanze strumentali, manifestando disturbi psico-somatici o, peggio, nei casi più gravi, preoccupanti sintomi psichiatrici. Va anche detto che, nelle famiglie in cui la violenza e l’ostilità costituiscono la regola, dove i figli crescono nel terrore e nella paura, la separazione rappresenta l’interruzione di quei comportamenti altamente disfunzionali subiti in famiglia e, quindi, una condizione certamente più salutare. In linea generale, comunque, le reazioni dei figli alla separazione variano in base alla loro età: i bambini piccoli sono spesso dominati dal timore, dall’ansia e dall’angoscia dell’abbandono. Più piccoli sono, maggiore è il loro bisogno di protezione, per cui saranno frequenti le fantasie di ricomposizione familiare. I genitori rappresentano la loro sopravvivenza (fisica ed emotiva) perciò la perdita dell’unità familiare è un evento che crea instabilità e sofferenza e può generare manifestazioni regressive. Verso i 6 anni, iniziano a comprendere la situazione e possono vivere fantasie distruttive, presentare comportamenti ossessivi, disordini alimentari o ansia.
In preadolescenza, il vissuto principale è quello della perdita, con componenti depressive che possono accompagnarsi ad idee angosciose centrate sulla paura dell’abbandono. Questa è la fase in cui è più probabile che si sviluppino i conflitti di lealtà verso l’uno o l’altro genitore, con tentativi di sostegno al genitore che si ritiene più in difficoltà; è anche la fase in cui, dietro ad una razionalità ipercontrollata, può nascondersi un profondo disorientamento relazionale. Nella misura in cui i genitori sapranno gestire la separazione senza dimenticare di essere ancora coppia genitoriale, rendendo i figli partecipi della separazione con maturità, spiegando loro le motivazioni obiettive che hanno portato alla rottura del legame, senza cercare alleanze, ma garantendo loro la continuità genitoriale, la presenza e la sicurezza affettiva, tutti questi aspetti potranno considerarsi transitori e acuti. Assicurare ai figli la presenza di entrambi i genitori, la continuità genitoriale e la certezza del legame, anche se in modo regolamentato da un Tribunale, è, infatti, il modo per consentire ai figli di affrontare adeguatamente il percorso psicoevolutivo, sviluppando fiducia in sé stessi e nelle relazioni, e strutturando una personalità sulla base della presenza di un maschile e di un femminile di riferimento.
Qual è, dal Suo punto di vista, la strategia migliore per permettere ai minori di mantenere un positivo working model di sé e dell’altro?
Il processo di individuazione è costellato da micro-lutti che, se elaborati e metabolizzati, diventano i mattoni sui quali costruire identità e autostima. È la possibilità di affrontare gli eventi difficili della vita, di renderli pensabili e trasformarli in ricordi a permettere all’individuo di arricchirsi emotivamente, di viversi come competente e, soprattutto, di continuare ad investire sul presente, avendo fiducia nel futuro ed impedendo all’esperienza negativa di trasformarsi in fattore di rischio psicoevolutivo. Nel caso dei bambini, il trauma maggiore è dato dall’incapacità degli adulti significativi di riferimento a corrispondere ai loro bisogni, ad accompagnarli nel loro percorso di individuazione, contenendo e trasformando le loro ansie e paure. È proprio la mancata elaborazione degli eventi traumatici, l’impossibilità a pensare ad essi ad aprire il campo a possibili ripetizioni drammatiche, presumibilmente dettate dall’esigenza di rimettere alla prova la realtà, cercando di correggerla, ripararla o padroneggiarla.
Quali ritiene siano i provvedimenti più urgenti da assumere in ambito giuridico al fine di tutelare il benessere dei minori?
La prima cosa che mi viene in mente è la necessità di velocizzare le procedure affinché i ritardi non si trasformino in una cronicizzazione delle situazioni e in pregiudizio per i bambini. Per quanto riguarda, invece, il mio campo applicativo, ritengo necessaria una maggior professionalizzazione degli operatori: le buone prassi ci sono, così come ci sono le Linee Guida, le Carte e le Convenzioni. Ma, a farla da padrone, in psicogiuridica, è ancora il metodo clinico: sono tuttora troppi i colleghi che, nelle aule dei Tribunali, si basano sul metodo clinico, in ambito civile e, peggio ancora, nel penale. Il metodo clinico è uno strumento indispensabile all’interno di uno studio psicoterapeutico, ma non può guidare l’intervento psicoforense; se ciò fosse, servirebbe solo ad alimentare il narcisismo dell’incauto professionista che lo applica e non renderebbe un buon servizio ai bambini che abbisognano, invece, di risposte scientificamente valide. Per questo è necessaria una formazione specifica sul tema e un aggiornamento continuo sui nuovi contributi della comunità scientifica, così come è necessario mantenere un atteggiamento dinamico, senza innamorarsi delle proprie teorie di riferimento, che a lungo andare possono trasformarsi in prigioni ideologiche che allontanano dal nostro dovere etico. Ritengo, infine, che in Italia manchi un centro di riferimento che coordini le varie attività promosse a favore dei bambini e monitori l’applicazione delle convenzioni e delle attività delle istituzioni pubbliche.
Quali sono i sistemi giuridici/Paesi più virtuosi dai quali poter prendere esempio?
Per quanto di mia competenza, devo, purtroppo, ammettere che abbiamo ancora molto da imparare. Pensiamo, ad esempio, che la mediazione familiare nasce negli Stati Uniti alla fine degli anni ’60 e da qui si diffonde in Canada, dove diviene obbligatoria per tutte le coppie con figli che si separano. In Italia compare solo negli anni ’90 e, ancora oggi, è una risorsa davvero poco sfruttata.
Anche nel campo della psicologia investigativa l’Italia è fanalino di coda in Europa: lì è la Gran Bretagna a primeggiare. Che dire, poi, della banca dati dei pedofili della Polizia, operativa in molti Paesi europei (ancora la GB in testa) e così osteggiata in Italia…

di Giulia Angelon
Collaboratrice di SocialNews

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