Temporaneità o precarizzazione degli affetti?

di Francesco Milanese

Le famiglie naturali che si vedono portare via il bambino si sentono giudicate in termini di idoneità e questo fa sì che stentino ad accettare il consenso ad un progetto che, indipendentemente dalle parole degli operatori, è percepito come sanzionatorio

Nel mio Ufficio di Pubblico Tutore ho visto tante esperienze di affidamento, ma vengo anche da un’esperienza personale di affido, di quelli prorogati e prorogati.
La legge 184, che è stata modificata nel 2001, è una legge che al suo articolo 1 parla del diritto del bambino di vivere, crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia. Quel “propria” vuol dire che quando la sua famiglia non ce la fa, ci vuole una famiglia che lui possa continuare a percepire come propria: questo è il senso dell’adozione. Però, prima di dover ricorrere all’allontanamento, prima di rescindere i legami tra un bambino e la sua famiglia, quel propria inequivocabilmente indica la famiglia in cui è nato.
Le responsabilità genitoriali della famiglia, quando questa attraversa un momento di difficoltà, devono essere sussidiate attraverso interventi di sostegno sociale ed economico perché siano i genitori i protagonisti dell’esercizio dei loro compiti, non perché siano sostituiti da altri soggetti.
L’esperienza dell’affidamento rappresenta, da un punto di vista teorico, una seria ipotesi di responsabilità sociale delle famiglie, laddove c’è la possibilità di incontrarsi tra soggetti e tra famiglie, per cui non si affida un bambino, ma si affida una famiglia ad un’altra famiglia.
Con la legge del 2001, si è cercato di eliminare una delle ambivalenze del discorso dell’affidamento, e cioè che l’affidamento poteva essere giudiziale o consensuale. L’affidamento è dunque innanzitutto consensuale. Il servizio che lo dispone opera per supportare sussidiariamente, ai sensi dell’ articolo 30 della Costituzione, le responsabilità della famiglia. Sarebbe preferibile ritornare al concetto costituzionale di capacità superando la illogica definizione di temporaneamente inidoneo che tuttora la legge prevede. Il concetto di idoneità, infatti, è un concetto che esclude o include. Le capacità sono, invece, un concetto frazionabile: io posso avere delle capacità affettive, ma non economiche, delle capacità relazionali, ma non direttive od empatiche. Si può dunque intervenire sulla famiglia sulla base delle diagnosi delle capacità, quindi di quello che c’è e di quello che residualmente deve essere introdotto e sussidiato.
Il provvedimento, dunque, è un supporto alle capacità genitoriali e il consenso che la famiglia esprime non riguarda il singolo spostamento del figlio in una famiglia, ma l’intera azione di recupero della famiglia naturale di cui l’affido è uno dei momenti, sicuramente il più forte, ma non l’unico né risolutore. Nel caso in cui non ci sia il consenso, si legge all’art.2, provvede il Tribunale per i Minorenni, che agisce sulla base degli articoli 330 e 333 del Codice, i quali definiscono delle azioni protettive contro il comportamento dei genitori pregiudizievole per il figlio. La mancanza di consenso è il segnale di un conflitto che non riguarda il provvedimento dello spostamento del bambino da una famiglia all’altra, ma la disponibilità dei genitori a rimettersi in discussione, a percepire i limiti del proprio agire e correggersi.
Questa pervicace indisponibilità dei genitori a utilizzare le opportunità messe a disposizione da parte dei servizi può essere considerata pregiudizievole per il figlio e quindi necessitare di un provvedimento che non è più, almeno inizialmente, di sostegno ai genitori, ma di mera protezione della prole. Ecco perché il provvedimento del giudice minorile è diverso per natura e struttura da quello consensuale, perché è un collocamento protettivo in una famiglia. Su questa base sarebbe opportuno rivedere molti protocolli operativi dei servizi locali sull’affido.
Ragionare sul concetto di capacità e non di idoneità consentirebbe di modificare il rapporto tra il sistema dei servizi e le famiglie, perché le famiglie naturali che si vedono portare via il bambino si sentono giudicate in termini di idoneità e questo fa sì che stentino ad accettare il consenso ad un progetto che, indipendentemente dalle parole degli operatori, è percepito come sanzionatorio nel resto della società in cui si vive. La percezione della famiglia naturale è di essere messa in una condizione prossima al decadimento di potestà. E allora, assume un significato anche il tema della temporaneità, perché questa temporaneità definita sta a significare che si andrà a lavorare sulle capacità, non sull’idoneità, che è invece indefinita.
L’esperienza delle proroghe prima della 149 è stata un’esperienza devastante perché la temporaneità è diventata precarizzazione. Quando uno dice: “Facciamo un affido per un anno, e poi l’anno dopo vediamo”, quel “vediamo” vuol dire che al ritorno dalle vacanze il bambino chiede: “Ma io, il prossimo anno vado a scuola qua o vado dalla mia mamma?”, vuol dire tutta una serie di precarietà della relazione e della precarizzazione dei rapporti in tutto il sistema. Fortunatamente, la 149 dice che l’affido può essere prorogato solo dal Tribunale per i Minorenni.
Se è prorogabile dal Tribunale per i Minorenni, vuol dire che quell’affido ha compiuto il suo percorso progettuale non raggiungendo tutti i suoi obiettivi: perciò è il Tribunale che deve valutare se esiste una presunzione di pregiudizio ed è quindi un’altra la natura del provvedimento che succederà. Ben venga la temporaneità, invece, se elimina la precarizzazione, perché è un tempo certo, un tempo che alcuni dicono troppo corto, forse, però dentro a questo c’è lo spazio proprio del servizio sociale, del sistema delle relazioni primarie e del sistema sociale d’intervento, tutto il resto è compito dell’autorità giurisdizionale.
L’affido è un paradosso delle responsabilità, perché è intorno al principio di responsabilità di ciascuno dei soggetti che si occupa di questa cosa che può funzionare o meno, ed è anche un paradosso del limite: non si può parlare seriamente di affido, di solidarietà sociale o di responsabilità sociale della famiglia, senza avere rispetto del senso del limite che questa esperienza porta con sé. Il limite è il limite della famiglia affidataria che si vede incaricata di esercitare una genitorialità sussidiaria e non sostitutiva, sapendo di non avere una vera possibilità di incidere dentro a certe situazioni. L’esperienza ci dice che il bambino deve mantenere i rapporti con la sua famiglia, però, quando il venerdì si riconsegna il bambino alla famiglia naturale, spesso il lunedì ritorna che è uno straccio e questa é una sofferenza del limite con la quale si misura l’esperienza stessa dell’affidamento. Papà e mamma sono papà e mamma di quel bambino, non ce ne sono altri e noi dobbiamo lavorare su quelli. A cosa serve allora l’affidamento? Quando ne parlo dico sempre, usando un’immagine montanara: tu affidario non sei lo zaino dentro il quale metti il bambino e lo porti alla sua meta, sei il basto dello zaino di quel bambino, il telaio che tiene su il bambino. Sono i bambini che devono portare lo zaino, lo zaino sono il papà e la mamma, con i loro limiti. Quel papà e quella mamma nessuno glieli potrà togliere e forse è necessario che loro abbiano un po’ più di schiena, un po’ di basto nel portare questo zaino per non esserne completamente schiacciati.
Nella nostra Regione, la carenza di linee guida per i servizi sulla gestione dell’affidamento è un elemento che non aiuta né dal punto di vista dell’allocazione delle risorse, né dell’operatività.
Ci sono 19 ambiti socio assistenziali e abbiamo 19 modelli di affidamento. Questo è il senso del limite, che è il limite del fatto che quando le famiglie si incontrano non si riescono a riconoscere, per cui non riescono a fare rete. All’interno di un progetto in cui il tempo è certo e la possibilità di offrire una solidarietà è certa, anche l’affidamento ad una famiglia senza figli può essere in qualche modo una risorsa. Così come bisogna smontare la pregiudiziale contro gli affidamenti precoci. Le famiglie giovani con figli piccolini sono più duttili, proprio perché sono più giovani e possono capitalizzare in modo maggiore l’aiuto che un’altra famiglia, un sistema di servizi e un sistema di relazioni possono dar loro. Lo vediamo costantemente come risultato di feed-back nel lavoro che gli educatori fanno all’interno di gruppi di genitori nei nidi e poi nelle scuole dell’infanzia, rispetto a quello che riescono a fare nelle scuole elementari.
In quell’età c’è la possibilità di offrire dei contributi significativi ai genitori perché recuperino le loro capacità genitoriali e diventino quella famiglia appropriata di cui i bambini hanno diritto.

di Francesco Milanese
mediatore familiare, già Pubblico Tutore dei Minori Friuli Venezia Giulia.

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