Prefazione a Un Lessico per la Pace

di Fulvio Salimbeni

Prefazione a “Un Lessico per la Pace” di Manuela Fabbro

fabbro_copertinaLa nota asserzione dell’Agricola di Tacito, che i Romani, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, potrebbe essere usata come emblematica premessa all’imponente e accuratissima ricerca di Manuela Fabbro sul lessico della pace, sugli usi corretti e distorti d’un concetto centrale nelle contemporanee culture politiche e cui si va finalmente dedicando una crescente e doverosa attenzione: come dimostra la prima parte della vasta, sistematica e aggiornata bibliografia finale, che attesta nel modo migliore l’appassionato impegno dell’autrice, cui si può ben dire nulla d’importante sia sfuggito.
Questo lavoro, nato come tesi di dottorato nell’Università di Udine quale conclusione di un’esperienza maturata all’interno del Centro interdipartimentale di ricerca sulla pace “Irene”, sorto circa un decennio fa per merito dell’appassionato impegno civile di Luigi Reitani e di Francesco Pistolato, è un contributo veramente di prim’ordine da più punti di vista, dal momento che in esso confluiscono filoni di ricerca diversi: quello propriamente storico-politico tanto quanto quello lessicologico, la filosofia politica così come la storiografia, la letteratura e la religione, dando origine a un’opera effettivamente pluridisciplinare, in cui le diverse prospettive si compongono in un quadro coerente, organico e unitario, che apporta un contributo originale al dibattito in corso in materia sui versanti sia metodologico sia contenutistico.
A parte i memorabili corsi universitari di Federico Chabod su L’idea di Nazione e sulla Storia dell’idea d’Europa e la grande impresa, tuttora in corso, del Lessico intellettuale europeo, è, infatti, recente il volume di Francesco Benigno Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia (Viella, Roma 2013), che riprende un lontano suggerimento, degli anni Trenta, di Marc Bloch. Quest’ultimo, fondatore, insieme con Lucien Febvre, delle “Annales” – la rivista, che, come sostenuto da Peter Burke, provocò una vera e propria rivoluzione storiografica, contestando la tradizionale histoire bataille a favore di quella economica, sociale e delle civiltà, in cui rientravano tutti gli aspetti della vita degli uomini, e non solo quelli politici, diplomatici, militari, fino allora dominanti –, sosteneva l’esigenza di mettere in cantiere un vocabolario della storia, onde ricostruire le vicende, i mutamenti, le trasformazioni dei concetti chiave nel tempo, nello spazio e a seconda dei diversi contesti d’uso.
D’altronde, l’importanza delle parole e del loro studio anche storico – oggetto degli ormai classici saggi di Tullio De Mauro – era stata già rilevata e sottolineata nel 1863 dall’illustre glottologo ebreo goriziano, e fervente patriota, Graziadio Isaia Ascoli, che nell’articolo Le Venezie, in cui proponeva il neologismo “Venezia Giulia” in luogo di “Litorale Austriaco”, affermava che esse erano come, e talora più che bandiere, trasmettendo sempre un preciso messaggio, da decifrare e analizzare filologicamente e storicamente; che è appunto quanto compiuto con acribia e rigore ermeneutico da Manuela Fabbro, docente nelle scuole secondarie superiori, che in tale indagine ha trasfuso il proprio impegno pedagogico.
Memore di quanto affermato da Stefan Zweig, non a caso citato nella bibliografia, a proposito della necessità d’un nuovo modo di fare storia, sostituendo a quella di ciò che divide (le guerre) quella di ciò che unisce (la civiltà), valorizzando i temi collegati alla pace – più che mai sentiti essenziali dopo la Grande Guerra, da lui a ragione definita il suicidio dell’Europa, quella patria comune del cuore a lui tanto cara – la studiosa ha voluto fornire un sussidio di prim’ordine a tale strategia educativa, in Italia ancora ai primi passi, nonostante l’impegno di intellettuali come, a suo tempo, Aldo Capitini e Norberto Bobbio e, ora, Rocco Altieri ed Enrico Peyretti, senza dimenticare personalità quali don Lorenzo Milani e, attualmente, don Pierluigi Di Piazza con il suo Centro Ernesto Balducci, dedicato a un’altra figura di spicco in tale ambito.
Riprendendo spunti e suggestioni del convegno udinese di “Irene” del 2005, Per un’idea di pace, e del capitale volume di Ekkehart Krippendorff, Lo Stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza, in Un lessico per la pace si compie un percorso di ricerca che e ben più che soltanto terminologico, in quanto si spazia dall’analisi linguistica e filologica e dai confronti lessicali tra tedesco (scelto quale termine di paragone, perché è proprio in esso che sono usciti alcuni dei più importanti contributi teorici e politologici in merito) e italiano all’indagine sui classici del pensiero pacifista. Tolstoj e Gandhi sono citati naturalmente in primo luogo, campioni della nonviolenza e del pacifismo radicale, da noi tuttora troppo poco studiati (nel caso dello scrittore russo valorizzandone un aspetto scarsamente considerato rispetto ai suoi testi letterari, anche se quel capolavoro che è Guerra e pace dovrebbe pur dire qualche cosa a un lettore attento), ma pure Bertha von Suttner, nel 1905 premio Nobel per la Pace, di cui di recente Annapaola Laldi ha curato l’edizione italiana della corrispondenza con Alfred Nobel, Un’amicizia disvelata: carteggio 1883-1896 (Moretti§Vitali, Bergamo 2013), mentre gia nel 1989 per le torinesi Edizioni Gruppo Abele ne aveva curato la scelta antologica degli scritti pacifisti Giù le armi. Fuori la guerra dalla storia, di cui si spera possa presto uscire una versione rivista e aggiornata.
A fianco di tali autori, però, un’attenzione particolare è riservata ai teorici veri e propri della cultura di pace, in primo luogo – a parte precursori come Kant, Bertrand Russell e il Nobel italiano per la Pace (1907) Ernesto T. Moneta, cui nel gennaio del 2008, in occasione del 90° anniversario della morte, il Centro “Irene” dedicò un convegno – Johan Galtung, Werner Wintersteiner, Giuliano Pontara, Verdiana Grossi e Pat Patfoort; sicché le pagine che seguono si propongono come una sorta d’enciclopedia, mettendo a fuoco tutta una serie di problemi aperti e conducendo con sicurezza il lettore in territori ancora in larga misura, almeno in Italia, inesplorati o quasi. La parte centrale dell’opera, quella propriamente terminologica, sulle parole e i concetti fondamentali, affronta, infatti, il tema dalle più diverse angolature e nell’accezione più ampia; grazie a tale feconda impostazione si prendono in considerazione, rivelandone e denunciandone gli abusi e le strumentalizzazioni, concetti venuti di moda negli ultimi tempi e che, a un primo, superficiale esame, farebbero ritenere che oggi noi si viva in un mondo senza più guerre, in cui domina la pace. Se si leggono i quotidiani o si guardano i telegiornali, parrebbe che la guerra sia scomparsa dall’orizzonte mondiale, dal momento che, là dove vi siano crisi, si parla solo di ingerenze umanitarie, di interventi di polizia internazionale, di operazioni di peacekeeping, di peace enforcement o di peacebuilding, mentre i morti non esistono più, perché i bombardamenti aerei, come nel caso di quelli NATO sulla Serbia nel 1999, ora provocherebbero solo “danni collaterali”. Tale ipocrisia politica, che comunque è una sorta di riconoscimento implicito dell’importanza che la parola “pace” è venuta assumendo a livello planetario, è smascherata dalla puntuale indagine in cui s’articola il saggio, che ha, inoltre, un’esplicita valenza etico-poltica, come appare con piena evidenza leggendo i paragrafi dedicati all’educazione civica, posta a confronto con la politische Bildung in Germania e in Austria, e all’educazione alla pace, che non è soltanto – come ben chiarito nel testo – assenza di guerra, ma costruzione d’una coscienza civile che ripugna all’uso della violenza in qualsiasi sua forma; con le quali riflessioni si pone un problema educativo di primaria importanza, che, tra l’altro, proprio di recente è stato affrontato e discusso al convegno internazionale goriziano dell’Istituto per gli Incontri culturali mitteleuropei sulla rappresentanza politica (22 novembre 2013). In tale occasione, infatti, nel suo saluto istituzionale, tutt’altro che convenzionale, l’assessore provinciale Vesna Tomsic ha rilevato come nella scuola italiana tale disciplina, pur formalmente presente, di fatto non sia insegnata o, tutt’al più, lo sia in maniera solo schematica e approssimativa, nozionistica, con le deprecabili conseguenze che ne derivano in termini di formazione alla cittadinanza. D’altro canto, è ben noto che nelle università italiane i corsi di laurea in scienze della pace sono rari, alcuni hanno avuto una durata molto breve e gli altri ad ogni modo conducono vita stentata, dato che tali argomenti troppo spesso sono reputati astratti o ideologicamente condizionati, donde il disinteresse o la diffidenza nei loro riguardi.
La ricostruzione ad ampio raggio condotta dalla Fabbro, invece, documenta in maniera inoppugnabile che così non è, che un’autentica cultura della pace affronta questioni vitali per l’umanità all’aprirsi del nuovo millennio, dalla cittadinanza globale allo sviluppo sostenibile, alla decrescita – non stupisce, quindi, la presenza in bibliografia anche d’un autore come Serge Latouche, un pioniere e un’autorità negli studi in materia – e all’ecologismo (come pace non solo tra gli uomini, ma anche con l’ambiente, con la Natura), dalla disobbedienza all’antimilitarismo e alla storia condivisa: un settore disciplinare oggi in via di progressiva affermazione e un argomento particolarmente sentito in una regione di frontiera quale il Friuli Venezia Giulia. Questa, se nella prima metà del Novecento è stata teatro di violenze inaudite, provocate da drammatici scontri ideologici, etnici e di potenza, ora viene finalmente proponendosi come luogo di dialogo, di confronto e di sperimentazione di iniziative storiografiche e didattiche iscrivibili a buon diritto nella cultura di pace, come attesta il lavoro compiuto, tra 1993 e 2000, dalla Commissione mista storico-culturale italo-slovena, istituita dai governi di Roma e Lubiana, che ha elaborato, e sottoscritto all’unanimità, una relazione finale comune di storia dell’area alto-adriatica nell’età contemporanea, pensata in primo luogo proprio per le scuole, che ora si può leggere in “Storia contemporanea del Friuli” del 2000.
Pare evidente da quanto finora osservato che quest’esemplare indagine costituisce un apporto imprescindibile e innovativo agli studi irenologici, facendo in maniera egregia il punto sul loro stato, aprendo nuove prospettive di lavoro in materia e fornendo un prezioso strumento didattico al nostro sistema educativo; ma essa è altresì un’inconfutabile conferma del fatto che l’ateneo udinese, piccolo in termini quantitativi, si pone a livelli d’eccellenza sul piano qualitativo nella misura in cui nei suoi laboratori scientifici nascono opere come questa.

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