Quel fiore dal dolcissimo nome

di Tiziana Mazzaglia @TMazzaglia

Luigi Pirandello: “L’uomo dal fiore in bocca” (1923). Il dramma di un uomo malato di tumore e i suoi ultimi sguardi alla vita.

Immagine fonte google.it

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Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 –Roma 10 dicembre 1936) appassionato di narrativa e teatro ha scritto nel periodo in cui la letteratura si è affacciata al campo della psicologia, con particolare attenzione alle sofferenze degli individui, alle loro maschere imposte dalla società, al loro ruolo che si impone alla libertà di vivere e ai mali dell’umanità. Nel 1923 pubblica il testo di un’opera teatrale intitolata “L’uomo dal fiore in bocca”.

La trama presenta due uomini che dialogano, di notte, ad un caffè vicino alla stazione del loro paese. Uno dei due ha una certezza inquietante riguardo alla sua vita: sa di dover morire a causa di un tumore. Una fine che si è presentata con il biglietto da visita e con un appuntamento.

«(…) venga…le faccio vedere una cosa…Guardi, qua, sotto questo baffo…, qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: -Epitelioma si chiama». Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitemioma…La morte, capisce? È passata. M’ha conficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: «Tienitelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!». Ora mi dica lei, se con questo fiore in bocca, io me ne posso stare a casa tranquillo e quieto (…)».

Si sa che i frati, già nel Medioevo, salutavano pronunciando le parole “fratello ricordati che devi morire” per spronare gli animi a condurre una condotta sana e consona ai principi evangelici. Eppure, è vero che la certezza della fine conduce a riflettere sul presente e a viverlo senza sprechi, come attimo che fugge e non ritorna più, come unica occasione da rendere esclusiva.

«(…) Mi serve. Mi serve questo. (…) Attaccarmi così –dico con l’immaginazione- alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata. Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: -aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… -ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! Fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire…sa quel particolare alito che cosa in ogni casa? Nella sua, nella mia. –Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…»

Il protagonista del racconto vive, quasi con avidità, le sue ultime giornate e contempla la vita in tutti i suoi minimi dettagli, criticandoli con una certa ironia, in modo da rendere meno drastico il distacco.

«Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla

Un dramma borghese il cui tema centrale è intessuto di relativismo incentrato su come ciò che solitamente risulta banale, in realtà non lo è per chi sa di dover morire. Si cela in tutto questo meccanismo la drastica realtà umana di incomunicabilità tra individui che scaturisce in una vita incompresa e circondata di solitudine.

«Mi lasci dire! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso…Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: – «Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso». E con quelle due dita protese, la piglia e butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e doman l’altro

Un dramma scritto nel 1923 e ancora oggi vissuto da troppe persone.

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