Chiedere aiuto è il primo passo per affrontare la malattia

Valeria Cipriani

Bisogna poter gestire lo shock iniziale, trovare un nuovo equilibrio nella quotidianità, affrontare lo stress che una patologia invalidante inevitabilmente comporta e superare sensi di colpa e di vergogna. Non è un’impresa facile, ma nemmeno impossibile. L’importante è trovare la forza di farsi supportare da un esperto.

Perché l’aiuto psicologico è importante per i genitori di un bambino affetto da Leucodistrofia?
Un evento inaspettato come la nascita di un figlio che sviluppa una malattia invalidante esercita un forte impatto sui genitori, colti spesso impreparati. Per questo motivo, risulta necessario un supporto psicologico al momento della diagnosi. Se, da una parte, questa permette di dare un nome all’insieme di sintomi, dall’altro rappresenta anche un momento indelebile per lo shock provato.
Essere genitore di un bambino malato è molto doloroso. Quando si tratta di una malattia rara, inoltre, subentra anche l’ingombrante sensazione di solitudine dovuta alla scarsità statistica di casi simili.
La coppia coniugale deve affrontare un percorso individuale e familiare impegnativo al fine di trovare un nuovo equilibrio, funzionale alle nuove priorità. Appare, quindi, importante che la coppia sia affiancata nel cambiamento che investe le relazioni familiari ed extrafamiliari e supportata nella gestione dello stress che la malattia comporta.
Un genitore soffre nell’osservare quotidianamente i regressi del proprio figlio.
Questo può portare a sensi di colpa e di impotenza genitoriale, alimentando frustrazione e minando autostima ed autoefficacia. Un figlio che non sta bene, infatti, evoca sempre una ferita narcisistica e pone di fronte alla fallibilità.
Lo specialista aiuta il genitore a trovare un nuovo adattamento, a non vivere il mondo esterno come giudicante, ad aprirsi anche a chi vorrebbe avvicinarsi, ma non sa come farlo; lo incoraggia a riscoprirsi genitore di un bambino che, seppur indebolito, è ricco di amore e vince le paure perché ha accanto la mamma e il papà, esempi di forza e di coraggio.
Chiedere aiuto non è segno di debolezza, ma di forza: significa uscire dall’isolamento ed entrare in una rete che sostiene e fa emergere potenzialità e risorse apparentemente nascoste.

In una situazione così delicata, come può relazionarsi il genitore al figlio malato affinché anche lui maturi la consapevolezza della propria situazione medica in modo non traumatico?

Ogni figlio ha il diritto di essere informato sulle proprie condizioni cliniche. È necessario, però, che le comunicazioni avvengano in linea con le capacità di comprensione proprie dell’età. In questo si può essere senz’altro aiutati dallo psicologo esperto.
In generale, il linguaggio utilizzato deve essere comprensibile e, pur dicendo la verità, i particolari vanno aggiunti piano piano, in modo tale da non creare ansie, né traumi.
Va posta attenzione anche al linguaggio non verbale: ad esempio, il tono della voce deve essere sicuro, convincente, sereno. Diventano, inoltre, importanti anche la postura, le rassicurazioni e le spiegazioni prima e dopo ogni visita specialistica.
Per non far vivere la malattia come un peso, bisogna anche imparare a giocare con termini e pratiche mediche, cosicché la persona non si senta in imbarazzo, né spaventata. Imparare a giocare e a scherzare sulla routine quotidiana aiuta tutta la famiglia ad entrare in empatia. Riconoscere la sofferenza dei figli aiuta a farli sentire compresi.
È importante che i genitori non parlino delle difficoltà quando i figli possono sentirli e che non esprimano preoccupazioni ed incertezze in loro presenza. I figli riconoscono i genitori anche per il contatto fisico al quale sono stati abituati. Per questo motivo è importante continuare a coccolarli sempre con la stessa intensità e modalità. Anche tutte le figure che ruotano attorno alla famiglia devono essere informate, poiché solo in questo modo potranno rendersi realmente utili e sapranno relazionarsi in maniera più spontanea ed adeguata.
È, infine, importante ricordare che le persone che soffrono di più sono proprio i figli: spesso non riescono ad esprimere desideri, pensieri, paure, ma possono sentirsi sollevati dall’abbraccio caldo dei genitori.

Come si può stare accanto alla famiglia?
La famiglia di un bambino affetto da malattia rara ha bisogno dell’aiuto di tutti, dai parenti ai vicini di casa. Aiutare significa far sentire la vicinanza fisica ed emotiva, ascoltare, interessarsi, incuriosirsi, accogliere le paure e gioire insieme per le piccole cose.
Prima di avvicinarsi alle famiglie è importante raccogliere informazioni sulla malattia, in modo tale da poter comprendere meglio le difficoltà ed i bisogni reali. Ciò consente di entrare rispettosamente nelle loro vite, non perché mossi da pietismi, ma perché spinti realmente a ricercare il contatto.
È fondamentale spronare la persona ad andare avanti, aiutandola a trovare un’associazione e contattando uno psicologo tramite il Servizio Sanitario Nazionale, privatamente oppure chiedendo all’associazione stessa. Lo specialista aiuterà il singolo, la coppia oppure la famiglia e potrà proporre anche incontri di gruppo con altre famiglie.
Occorre, quindi, far sì che la famiglia non rimanga isolata perché, anche se si tratta di malattia rara, ci sono persone che vivono la stessa situazione e possono condividere esperienze e consigli.

Valeria Cipriani
Psicologa ELA Italia Onlus

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