Alla ricerca della verità

Michele Orichuia

I 15 Stati membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno espresso condanna unanime della strage. Per la prima volta dall’inizio del moto rivoluzionario, Russia e Cina, da sempre vicine al regime di Assad, hanno espresso un voto allineato a quello degli altri Paesi.

La Siria è divenuta lo scenario di un conflitto il cui livello di violenza raggiunto negli ultimi mesi non ha precedenti. Il Paese è lacerato dall’opposizione tra le forze governative di Bashar al-Assad e quelle dei ribelli contrari al regime baathista. L’inizio delle proteste, nel marzo del 2011, si inserisce nel contesto più ampio della Primavera Araba. L’obiettivo era quello di spingere il Presidente al-Assad ad attuare le riforme necessarie ad imprimere un’impronta democratica allo Stato. La politica interna si trova di fatto egemonizzata dal partito Ba’th, di cui il Presidente è Segretario. I suoi poteri, già enormi ai sensi della Costituzione del 1973, sono ulteriormente aumentati dal fatto che dal 1963 (data della presa del potere da parte del Ba’th) è in vigore la legge marziale. Secondo il Governo, la rivolta mirerebbe ad instaurare uno Stato islamico radicale, data la presenza nel Consiglio Nazionale Siriano – l’autorità politica dei ribelli in esilio – dei Fratelli Musulmani e di altri gruppi religiosi legati all’Arabia Saudita ed al-Qa’eda. Lo scontro è degenerato in guerriglia urbana e si è trasformato presto in guerra civile, con disordini in tutto il Paese. Con il passare dei mesi ha assunto le proporzioni di emergenza umanitaria internazionale. I dati forniti dalle Nazioni Unite mostrano la criticità della situazione.
Il numero delle vittime è superiore a 100.000, di cui circa la metà appartenente alla popolazione civile. Secondo l’ONU, circa quattro milioni di Siriani sono sfollati all’interno del Paese e 1,8 milioni si sono rifugiati fuori dai confini nazionali. Per sfuggire alle violenze, decine di migliaia di persone, donne e bambini, in particolare, si trovano in strutture di accoglienza nelle Nazioni confinanti di Turchia, Giordania, Libano e nel Kurdistan iracheno. Decine di migliaia di manifestanti si trovano, inoltre, detenuti nelle carceri governative. Nonostante gli sforzi, le Nazioni Unite, come nel caso libico, si sono rivelate un organo fragile, con un’autonomia decisionale pressoché nulla quando subentrano in gioco gli interessi di singoli Paesi aventi status permanente presso il Consiglio di Sicurezza. Russia e Cina hanno, infatti, più volte posto il veto a risoluzioni che avrebbero condannato le azioni di Assad con sanzioni, obiettando che avrebbero potuto favorire un’ingerenza straniera. Ciononostante, l’organismo internazionale ha tentato invano di arrivare alla cessazione del conflitto con la nomina di Kofi Annan quale inviato speciale dell’ONU e l’invio di caschi blu nel Paese. La missione di pacificazione è fallita presto, con la rottura del cessate il fuoco da parte delle forze governative ed il conseguente ritiro del contingente ONU a tutela della propria incolumità. Nel contempo, rispetto ai primi mesi del conflitto, l’esercito siriano ha messo in campo l’aviazione, compiendo bombardamenti su larga scala nei centri abitati. Il numero dei morti nei singoli scontri è continuato a salire, così come il numero di testimonianze di crimini internazionali e contro l’umanità perpetrati dalle forze armate regolari. Con i propri contatti sul territorio, Amnesty International ed altre organizzazioni umanitarie hanno raccolto svariate testimonianze di torture e maltrattamenti subiti dai detenuti nelle carceri. Oltre alle semplici percosse — nei migliori dei casi — emergono vere e proprie pratiche di tortura collaudate, eseguite principalmente durante gli interrogatori. Tra di esse, le più comuni sono quelle di appendere il detenuto ad un gancio o inserirlo in una ruota di camion, anch’essa appesa, e, in questa posizione, picchiarlo con l’utilizzo di cavi e bastoni. È risultato ampio anche l’uso delle scariche elettriche. Vittime di tortura hanno descritto ad Amnesty International tre metodi: la vittima o il pavimento della cella vengono bagnati d’acqua e poi viene sprigionata l’elettricità; la “sedia elettrica”, con gli elettrodi applicati a varie parti del corpo; l’uso di pungoli elettrici. Le organizzazioni internazionali hanno, inoltre, accusato le forze governative e i miliziani di Shabiha (gruppi armati non in divisa) di usare i civili come scudi umani, di puntare intenzionalmente le armi su di loro e di adottare la tattica della terra bruciata. Anche i ribelli anti-governativi sono stati accusati di abusi dei diritti umani, incluse torture, sequestri, detenzioni illecite ed esecuzioni di Shabiha e soldati. Il 25 maggio 2012 segna un punto di non ritorno nella guerra civile siriana. Nella regione di Houla accade uno degli episodi più efferati del conflitto. 108 persone, di cui 49 bambini, vengono uccise nel villaggio di Taldou controllato dai ribelli, presso un insieme di insediamenti a maggioranza sunnita, a nord di Homs. Solo una parte delle uccisioni è risultata da fuoco di artiglieria e carri armati, mentre personale ONU ha confermato che la maggioranza delle vittime è stata assassinata, in un secondo momento, anche con colpi sparati a distanza ravvicinata. Gli Shabiha schierati a favore di Assad sembrano essere stati i più probabili esecutori. Alcuni residenti hanno raccontato che un centinaio di Shabiha, in questo caso Sciiti Alawiti, era accorso dai villaggi a sud e ovest di Houla al termine di diverse ore di bombardamenti. Testimoni oculari sopravvissuti hanno riferito che gli esecutori del massacro recavano scritti in fronte slogan inneggianti riconducibili al gruppo sciita. L’indagine ONU sul terreno riporta come intere famiglie siano state sterminate con armi da fuoco all’interno delle loro case, mentre sono emersi video agghiaccianti girati dai superstiti. In uno di questi, in particolare, sono visibili corpi di bambini mutilati con i crani aperti da armi da taglio. In altri casi, alle vittime è stata tagliata la gola. In tutto, gli osservatori ONU hanno potuto confermare, vedendone i corpi, la morte di 92 persone. I 15 Stati membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno espresso condanna unanime della strage. Per la prima volta dall’inizio del moto rivoluzionario, Russia e Cina, da sempre vicine al regime di Assad, hanno espresso un voto allineato a quello degli altri Paesi. Successivamente, undici Paesi (Olanda, Francia, Australia, Spagna, Bulgaria, Canada, Giappone, Turchia, Italia e Germania), oltre a Stati Uniti e Gran Bretagna, hanno espulso i diplomatici e gli ambasciatori del Governo siriano. Con l’avanzare del conflitto, riuscire ad ottenere informazioni certe su quello che accade nel Paese è divenuto sempre più difficile. La Siria occupa il quart’ultimo posto su 179 Stati nell’indice di libertà di stampa (world press freedom index); appare, pertanto, intuibile quanto possa essere rischioso il lavoro dei pochi operatori indipendenti presenti sul territorio. Il CPJ (Comitato per la protezione dei giornalisti) ha dichiarato come, nel corso degli ultimi 12 mesi, i rapimenti e le uccisioni nei confronti di freelance ed operatori locali siano cresciuti esponenzialmente. 28 morti, solo nel 2012, hanno, di fatto, messo la Siria al primo posto tra le Nazioni nelle quali si sono registrate uccisioni di giornalisti; al momento, a decine risultano rapiti o dispersi. In alcuni casi, il Governo ha rilasciato dopo mesi personale straniero che risultava disperso, come il cameraman turco Cüneyt Ünal, sequestrato nell’agosto del 2012 assieme alla collega giordana Bashar Fahmi, della quale, però, la sorte resta ignota. Anche i ribelli hanno rapito e tenuto in ostaggio giornalisti stranieri. Tra questi, Jonathan Alpeyrie, il quale ha dichiarato di avere subito, durante gli 80 giorni di detenzione, torture fisiche e psicologiche prima di essere rilasciato in cambio di una somma di denaro. Il giornalista americano Matthew Schrier è, invece, riuscito a fuggire uscendo da una feritoia dopo una prigionia lunga sette mesi da parte di gruppi islamici del fronte Jabhat al-Nusra, vicino ad al-Qa‘eda. Accusato di essere una spia, ha subito ripetuti maltrattamenti.
A gennaio di quest’anno, una petizione firmata dai rappresentanti diplomatici di una sessantina di Stati aveva lanciato un appello alle Nazioni Unite, chiedendo che la Corte penale internazionale dell’Aja fosse investita del compito di indagare sui crimini commessi. “La situazione sul terreno” – si legge nella lettera – “è diventata ancora più disperata. Gli attacchi contro la popolazione civile e le atrocità sono quasi la norma”. “ In questi mesi, il Consiglio di Sicurezza resta a guardare, mentre crimini di guerra e crimini contro l’umanità vengono commessi nella completa impunità contro la popolazione siriana” – ha dichiarato José Luis Díaz, rappresentante di Amnesty International presso le Nazioni Unite a New York. “Tutto questo non può continuare. La situazione della Siria deve essere immediatamente deferita al procuratore della Corte penale internazionale per garantire che persone di ogni parte attiva nel conflitto siano indagate e, laddove vi siano sufficienti prove, incriminate per i più gravi crimini di diritto internazionale”. Eppure, in quell’occasione, non arrivò solamente il no della Russia, ma anche quello degli Stati Uniti: “Bashar al-Assad potrebbe rientrare nella categoria dei criminali di guerra. Ma tale definizione rischierebbe di limitare, ed escludere, la possibilità che egli scelga autonomamente di arrendersi” – aveva affermato l’ex Segretario di Stato americano Hillary Clinton durante una conferenza stampa. In quest’ultimo periodo, le linee di condotta di Paesi fondamentali nello scacchiere decisionale stanno mutando. Va segnalata la risoluzione del 15 maggio 2013 dell’Assemblea generale, nel cui testo si sprona il Consiglio di Sicurezza a “considerare misure appropriate” a garantire che i responsabili delle violazioni dei diritti umani, di entrambe le parti, siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Vengono, inoltre, richieste indagini indipendenti ed imparziali su ogni possibile crimine contro l’umanità e crimine di guerra degli ultimi 26 mesi e vi è l’auspicio dell’estensione del mandato e di un maggiore accesso al Paese da parte della Commissione internazionale indipendente sulla Siria. Il testo, seppur non vincolante, è stato sottoscritto da 107 Paesi, rappresenta un netto riconoscimento internazionale dei crimini contro l’umanità perpetrati in Siria e sottolinea la necessità di porre fine alle ostilità. A seguito delle denunce su un attacco con armi chimiche che, la notte tra il 20 ed il 21 agosto scorsi, avrebbe causato centinaia di morti nella provincia di Ghula, a est della capitale Damasco, ispettori delle Nazioni Unite già presenti nel Paese per indagare su precedenti denunce di uso di armi chimiche si sono attivati per effettuare i dovuti accertamenti sull’accaduto. Qualora fosse accertato l’uso di armi chimiche, si tratterebbe di un crimine di guerra. Le principali Nazioni occidentali si sono messe al lavoro su un piano d’intervento in risposta a tale crimine. “Le informazioni disponibili da un’ampia gamma di fonti indicano che il regime siriano è responsabile dell’uso di armi chimiche negli attacchi” del 21 agosto. Lo ha affermato il Segretario Generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, al termine della riunione del Consiglio Nord Atlantico del 28 agosto. Si tratta, ha aggiunto, di “una chiara violazione delle norme e procedure internazionali. Qualsiasi uso di queste armi” – ha sottolineato – “è inaccettabile e non può rimanere senza risposta”. Secondo la rivista Foreign Policy, e secondo fonti dell’intelligence, le prove in mano agli Stati Uniti dell’uso di armi chimiche da parte di Assad sarebbero alcune telefonate concitate tra il Ministro della Difesa siriano ed un ufficiale dell’esercito presente sul campo, qualche ora dopo l’attacco del 21 agosto. Il Ministro della Difesa statunitense, Chuck Hagel, ha affermato che le autorità militari hanno illustrato al Presidente Obama una serie di opzioni e hanno cominciato a muovere i contingenti per fornire una risposta militare all’uso di armi chimiche da parte di Damasco.
Il discorso di Barack Obama del primo settembre non lascia più alcun dubbio. Il Presidente dichiara con fermezza che vi sarà un intervento militare limitato da parte degli Stati Uniti e che questo si è reso necessario in virtù dei crimini di guerra commessi dal regime di Assad, compreso l’utilizzo di armi chimiche.
Fatto, questo, sul quale Obama dichara che il Governo americano possiede prove certe. “L’attacco del Governo siriano con armi chimiche è stato un assalto alla dignità umana”, afferma, in quello che è un discorso sugli obblighi positivi e sui valori che la Democrazia occidentale più antica deve esprimere e tutelare. Per questo Obama spinge per un dibattito parlamentare per ottenere il consenso del Congresso all’intervento. “Chiederò l’autorizzazione ai rappresentanti dei cittadini americani al Congresso. Il dibattito ci deve essere perché la decisione è troppo importante. Siamo pronti ad andare avanti come unica Nazione”.
Il Presidente desidera che l’America intera prenda democraticamente parte a questa decisione, difficile, ma che va affrontata. “L’attacco Usa alla Siria potrebbe essere domani, fra una settimana o un mese e sarà limitato nella portata” – ha concluso.
Anche il Presidente francese, François Hollande, ha più volte dichiarato che la Francia è pronta ad intervenire, sostenendo che una cessazione della guerra in Siria è necessaria in tempi rapidi. Il Primo Ministro britannico, David Cameron, ha, invece, incassato il niet all’intervento da parte della Camera dei Comuni. La posizione della Russia non è rimasta impermeabile alla luce dei fatti emersi. Il Presidente Putin ed il collega iraniano Rohani, pur opponendosi all’intervento militare in Siria, hanno convenuto sul fatto che l’uso di armi chimiche è “inaccettabile”. Secondo una fonte del Cremlino, che ha reso nota la telefonata tra i due leader, “Russia e Iran ritengono intollerabile l’impiego di armi chimiche e stanno valutando gli appelli per un intervento militare esterno nel conflitto siriano. Putin e Rohani hanno sottolineato la necessità di cercare una soluzione politica”.
Si affievolisce sempre più l’ipotesi di un intervento ONU con la discesa in campo e presa in carico degli Stati Uniti. La Siria attende con crescente timore la decisione del Presidente Obama. Il Paese è in ginocchio e la popolazione civile, alla quale sono rivolti gli occhi del mondo, è alla ricerca disperata di una pace che appare ancora lontana.

Michele Orichuia
Università di Padova, Facoltà di Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani

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