L’infanzia a rischio

Marco Rossi-Doria

Che si fa quando l’infanzia, che prima di essere una condizione biologica è un’esperienza sociale ed antropologica indispensabile allo sviluppo della persona, viene violata? Quando subisce e commette violenze indicibili, esiste una riparazione, un ritorno, un recupero di ciò che si è distrutto?

Martins è un giovane Mozambicano nato e cresciuto tra le capanne. Un’amica mi racconta di lui: “Quando ha undici anni, nella notte arriva un commando di guerriglieri al suo villaggio. Brucia le capanne e tutti fuggono. Molti vengono uccisi. Lui e il fratellino di nove anni vengono portati via. Devono portare sacchi di grano e farina da 25 chili per tre giorni e tre notti lungo i sentieri nella foresta, senza quasi mai poter riposare. Al terzo giorno, il capo del commando chiede a Martins se nel loro villaggio viva una ragazza di nome Maria. Sì, confermano, vive nel loro villaggio. I guerriglieri la temono: è una ragazza un po’ strana e la credono posseduta dagli spiriti. Legano i due bambini a un grande albero. Ora ci uccidono, pensa Martins. Invece se ne vanno.”
Martins è riuscito a laurearsi in Mozambico e oggi vive e lavora in Spagna.
Non è diventato un bambino soldato soltanto per una credenza popolare. È stato molto fortunato: durante la lunghissima guerra civile mozambicana, in molti sono stati arruolati, feriti, uccisi e hanno, a loro volta, combattuto, ferito, ucciso. Non esistono numeri esatti, ma si stima che nel 2007 fossero circa 250.000 i bambini soldato nel mondo. Non si può dimenticare la vicenda del genocidio cambogiano, in cui i bambini furono utilizzati come carnefici dagli Khmer Rossi. Ma sono tanti i contesti in cui atrocità simili sono avvenute ed avvengono e di cui sui media arriva solo un’eco lontana.
L’orrenda realtà dei bambini soldato appare in contrasto con l’opinione consolidata e diffusa che l’infanzia sia un’età “salva”, libera dagli obblighi derivanti dall’appartenenza adulta alla società. Uno spazio sospeso in cui è concesso oziare, giocare, imparare. Un tempo dedicato alla crescita ed alla formazione di cui l’intera comunità è custode responsabile. Oggi, questo principio è riconosciuto ed affermato in numerosi documenti e norme internazionali, a partire dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia.
Eppure, sappiamo che in tutto il mondo la condizione dei bambini coinvolti nei conflitti viola l’intera Convenzione, a partire dal diritto alla vita.
Nel dibattito internazionale su questa dolorosa questione, alcuni hanno sottolineato come il cambiamento intervenuto nelle modalità non convenzionali di combattere le guerre abbia esteso il rischio di coinvolgimento dei minori nei conflitti. In realtà, il tema, benché articolato e non privo di caratteristiche recenti, non è nuovo ed è presente anche nella storia occidentale. Il regime nazista, soprattutto nella sua fase terminale, arruolò ragazzi appena adolescenti. Tanto che uno dei primi provvedimenti della Germania federale, a dispetto della denazificazione in corso, fu l’amnistia per i giovani coinvolti nel regime. In Italia, durante la prima guerra mondiale, furono mandati in trincea ed al fronte i ragazzi del ’99, ad appena 17 anni.
Sappiamo, poi, quanti minori non accompagnati arrivino in Europa, in fuga dalle guerre e vedano spesso non riconosciuti i propri diritti fondamentali. E – parlando di casa nostra – quanti sono i minori coinvolti a diverso titolo nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso e camorristico?
Che si fa quando l’infanzia, che prima di essere una condizione biologica è un’esperienza sociale ed antropologica indispensabile allo sviluppo della persona, viene violata? Quando subisce e commette violenze indicibili, esiste una riparazione, un ritorno, un recupero di ciò che si è distrutto?
In Mozambico si lavora ancora oggi nei parchi naturali per cancellare negli elefanti la memoria della guerra. Animali longevi, conservano per oltre 40 anni i propri ricordi. E cambiano le rotte per cercare il cibo. Per intervenire sull’infanzia ferita nell’anima, per far ri-elaborare agli ex bambini soldato i loro incubi e restituire una traccia di futuro, molto si cerca di fare. Si è provato con la psicanalisi e, dove anch’essa ha fallito, si sono utilizzate le tradizioni: le assemblee del villaggio in Rwanda, i riti purificatori dei curandeiros in Mozambico. Per dare parola, ricostruire, riconciliare, accettare, andare oltre.
Un lavoro lungo, difficilissimo, senza esiti assicurati. Si lavora per insegnare un mestiere e a leggere e scrivere. Perché non è semplice riportare fra i banchi chi ha combattuto una guerra. Non è facile soprattutto per le bambine, molte delle quali tornano madri di figli non voluti. Portato ulteriore ed incancellabile del passato subito in modo crudele.
Il mondo continua il proprio impegno per sconfiggere questa tragedia nei tanti Paesi in cui si ripropone, attraverso l’impegno di istituzioni internazionali, Governi, Ong, volontari, operatori, testimoni. Si tratta di uno dei fronti su cui l’Italia può e deve fare di più, rafforzando la propria cooperazione internazionale, accogliendo un più alto numero di minori rifugiati e mettendo a disposizione le molte nostre competenze nei campi della cura e dell’educazione.
Ma se è così duro intervenire a valle di un conflitto, seppure indispensabile, molto di più si può e si deve fare a monte delle catastrofi, nelle tante violazioni dei diritti dell’infanzia dovute a povertà, mancanza di cura, disattenzione anche nelle nostre città e nella nostra società.
Nel 2010, in Italia, c’erano 1.876.000 bambini residenti in famiglie situate al di sotto della soglia di povertà, di cui 653.000 in povertà assoluta. Due su tre di essi vivono nel Mezzogiorno. Quasi un ragazzo su cinque lascia la scuola prima di un diploma o di una qualifica professionale. Molti di essi vivono esposti fin da piccoli al lavoro clandestino ed irregolare, ai piccoli furti ed alla criminalità vera e propria. Non sono territori di guerra o di tratta e bisogna saper distinguere situazioni diverse tra loro per gravità, diffusione, intensità. Ma, a volte, anche da noi povertà ed esclusione espongono i minori all’appartenenza a parte in conflitto, alla violenza, alla vicinanza con le armi, alla logica delle bande, ecc.
Per molti anni ho insegnato a ragazzi come loro nei quartieri poveri di Napoli. Avevamo capito – i miei colleghi insegnanti, gli operatori sociali ed io – che serviva un luogo salvo, diverso dalla scuola, in cui però si imparano le cose importanti. Uno spazio da edificare attorno al patto educativo difficile e precario stretto con questi ragazzi, esposti a fallimenti e delusioni precoci ed al rischio del conflitto anche violento, dell’affiliazione precoce alla criminalità organizzata. La scuola, in questi territori, è uno spazio comunitario riparato, un’occasione di elaborazione di lutti, una palestra per immaginare esistenze altre e diverse, un’opportunità per rientrare nella cittadinanza e ri-acchiappare, per sé, diritti, opportunità, “normalità”. Uno spazio in cui, soprattutto all’inizio, va riconquistata a fatica la parola dell’insegnante. Infatti, c’è prima da chiudere la porta e tagliare fuori, almeno per un attimo, l’ingorgo di fatti, rumori, emozioni e dolori che compongono la vita nei quartieri. Anche questo è lavoro a valle, lavoro per rimediare ad un fallimento nostro, degli adulti, delle istituzioni.
Ora che sono Sottosegretario, sto provando a contribuire alla creazione di qualche marchingegno che nella scuola, soprattutto nelle zone difficili, lavori a monte del fallimento, garantisca ad ogni bambino attenzioni proporzionate ai propri bisogni fin dall’infanzia, corregga il tiro per tempo, dove serve. E lo faccia con continuità. Perché non servono spot, ma politiche pubbliche costanti nel tempo. Se oggi dobbiamo occuparci meglio del mondo e della sua complessità, non possiamo che cominciare da casa nostra.

Marco Rossi-Doria
Sottosegretario di Stato Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

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