Per una nuova cultura sportiva

Mariaroberta Gregorini

Accostarsi al fenomeno doping mediante un’opportuna analisi etica e bioetica rappresenta il solo modo per comprendere le delicate implicazioni morali, sociali, legali, fisiche e, naturalmente, psicologiche ad esso collegate.

La diffusione della pratica sportiva in quasi tutte le società del mondo contemporaneo costituisce il segno evidente dell’importanza che essa assume da un punto di vista sociale, economico e politico. Emerge, oggi, una relazione molto intensa tra sport e sistemi culturali di valori. Salute, sportività e fair play costituiscono sempre più raramente modelli etici e di vita da tenere presenti. Oggi, infatti – specialmente laddove lo sport è praticato a livello agonistico – il solo imperativo categorico da perseguire sembra essere quello di «vincere ad ogni costo». In tale visione, tutti i mezzi a disposizione – molti dei quali illeciti e dannosi – per raggiungere la tanto agognata vittoria trasformano le competizioni sportive in vere e proprie farse. Tra questi mezzi, quello che senza dubbio conduce in un colpo solo a compiere il reato di frode sportiva e che provoca anomalie psico-fisiche irreversibili e, in certi casi, addirittura la morte degli atleti – non sempre vittime inconsapevoli del sistema – risponde al nome di doping. Da molti anni, ormai, non esiste approvazione di protocollo scientifico riguardante la medicina che non sia accompagnata e suffragata da valutazioni etiche e mediche. Eppure, in un campo tanto noto e pubblicamente condiviso come quello dello sport, tutto sembra poter accadere senza eccessive remore. Accostarsi al fenomeno doping mediante un’opportuna analisi etica e bioetica rappresenta il solo modo per comprendere le delicate implicazioni morali, sociali, legali, fisiche e, naturalmente, psicologiche ad esso collegate. Cruciale risulta il concetto di fair play. Esso racchiude in sé una molteplicità di valori positivi a cui non solo la condotta degli atleti, ma anche quella del loro staff, delle società sportive e persino dei tifosi dovrebbe tendere: è soltanto in questo modo che si può parlare concretamente di etica dello sport. Lealtà nella pratica sportiva, dunque. Significa rispetto delle regole del gioco, considerazione dell’avversario, dell’arbitro, del pubblico, capacità di accettare la sconfitta e di onorare il contendente in caso di vittoria. Significa anche contrastare la corruzione, il doping, il razzismo e ogni forma di violenza. Rifiutare, insomma, ogni elemento che possa screditare e danneggiare lo sport. In questa prospettiva, più che al rispetto di regole imposte, l’etica dello sport conduce alla diffusione di una mentalità condivisa.

Come si può spiegare, dunque, che la pratica dello sport, nata e sviluppatasi – nel mondo greco – come attività pacifica, leale, agonistica, ma non violenta, possa aver subito una degenerazione culminante in una forte perdita di valori? Le cause sono svariate: da una parte, derivano da regolamenti sportivi ancora oggi ambigui, che conducono ad interpretazioni molteplici degli stessi; dall’altra, dall’«industrializzazione» della macchina dello sport, che ha permesso il definitivo intreccio dell’evento sportivo – almeno a livello professionistico – con l’affare economico. Le pressioni di sponsor, partner e finanziatori minacciano di depredare il vero significato dello sport. Ne sono segnale preoccupante l’esasperazione agonistica dovuta al tornaconto materiale, la difficoltà crescente di far quadrare i bilanci delle società sportive, l’eccessiva entità dei compensi destinati agli atleti che gareggiano nelle discipline più seguite dal pubblico e, quindi, più remunerative. Oggi, salgono alla ribalta soprattutto gli interessi economici e le sponsorizzazioni. Nelle competizioni, talvolta, il fatto sportivo diviene quasi marginale rispetto alle esigenze commerciali, come si evince dalla sponsorizzazione di ogni minimo particolare dell’abbigliamento degli atleti o dalla scelta degli orari di gara in funzione delle esigenze televisive. Sia per motivi politici (molte Nazioni si sono accorte che le vittorie sportive, in modo particolare le Olimpiadi, regalano un’immagine prestigiosa delle capacità organizzative del Paese ospitante) sia per ragioni economiche, prevale l’intenzione di vincere a tutti i costi, senza preoccuparsi eccessivamente di forzare oltre misura i propri limiti naturali. Si rinuncia, quindi, ai principi autentici dell’etica sportiva e – per l’atleta – a quella che un tempo rappresentava la semplice e sana curiosità di misurarsi, di capire quali risultati era in grado di conquistare attraverso le proprie prestazioni. Ecco, dunque, insinuarsi il temibile quanto invitante «pericolo doping».

Se, tuttavia, nello sport praticato a livello agonistico, l’irruzione del doping è avvenuta per le forti pressioni economiche che hanno portato alla diffusione della logica del «vincere a tutti i costi», esiste anche un altro panorama a dir poco inquietante, rappresentato dalla commercializzazione clandestina di sostanze illecite nel contesto sportivo dilettantistico e giovanile. Anche in questo mondo, purtroppo, il doping si è diffuso capillarmente. Le motivazioni di tale fenomeno sono, in questo caso, da ascriversi alle alte aspettative di cui si fa portavoce la società odierna. Questa è una problematica che investe vari ambiti della bioetica, in quanto si sta progressivamente imponendo una «cultura dei desideri», nella quale si cerca di raggiungere la perfezione in tutti i campi e, laddove ciò non sia oggettivamente possibile, si infrangono le regole pur di ottenere il risultato agognato, mentre si vive un’eventuale sconfitta come una menomazione intollerabile. In questo clima, avviene sia che i genitori nutrano aspettative smisurate verso le pratiche sportive dei propri figli, sia che i giovani, a loro volta, diventino inconsapevoli portavoce di un culto edonistico del loro corpo, finendo per emulare i modelli sostanzialmente vacui proposti dai mass media. Spesso, i giovani si avvicinano al doping con la stessa ignoranza e la stessa incoscienza con le quali assumono, inizialmente, droghe leggere per avventurarsi, successivamente, in un tunnel senza vie di uscita. C’è da chiedersi, a questo punto, quale ruolo rivesta lo sport nella società odierna: sembra ormai sempre più un campo in cui diviene lecito ciò che è proibito negli altri settori. Uno speciale laboratorio sperimentale, dunque, nel quale si può procedere indisturbati senza rispondere all’interrogativo che rappresenta il fondamento delle questioni bioetiche: ciò che è scientificamente possibile è anche eticamente legittimo? Il doping ha corrotto a tal punto gli atleti, e il loro mondo, che si può parlare di vera e propria medicalizzazione dello sport, la quale, a sua volta, promana dalla medicalizzazione della vita, l’utilizzo spaventosamente crescente di farmaci, la maggior parte dei quali senz’altro superflua e, dunque, nociva per la salute: sono sempre più diffuse, infatti, le cosiddette patologie da farmaci. L’assunzione impropria di medicinali, oltre a comportare seri effetti collaterali ed eventi avversi inattesi, può costituire anche un’importante causa di malattie, alcune delle quali ad esito infausto. Tali patologie impreviste si sono abbattute anche – e soprattutto – sugli atleti che hanno fatto uso eccessivo e costante di sostanze dopanti. In Italia, nel 1999, la Procura della Repubblica di Torino ha affidato ad un pool di esperti un’inchiesta epidemiologica sul ciclismo. Si è scoperto, così, che il linfosarcoma rappresenta la principale causa di morte per un folto numero di ex corridori.

Tale patologia, tra i ciclisti, è stata diagnosticata con frequenza nettamente superiore rispetto alla media. Sempre a cura della Procura della Repubblica di Torino, ha avuto inizio, nel 1999, uno studio che ha monitorato i circa 24.000 soggetti che hanno praticato il calcio a livello professionistico, a partire dal 1964. Con profondo sgomento, sono stati registrati 34 casi (30 dei quali fatali) del morbo di LouGehrig. Il nome scientifico della patologia è SLA (sclerosi laterale amiotrofica) e normalmente colpisce gli adulti di età compresa tra i quaranta ed i settant’anni. L’incidenza di SLA sulla popolazione mondiale è pari a 6 casi ogni 100.000 abitanti. Per coloro che hanno praticato attività calcistica, tuttavia, la probabilità di sviluppare la malattia è nettamente superiore: siamo in presenza di una vera e propria «malattia professionale»? L’ipotesi più acclarata è che esista una correlazione tra l’insorgenza della patologia e l’abuso di farmaci, soprattutto antidolorifici. Altro evento singolare è rappresentato dall’utilizzo – al solo scopo dopante – di farmaci regolarmente in commercio per curare patologie serie, molte delle quali rare. Uno di questi farmaci è sicuramente l’ormone della crescita umano (conosciuto anche con la sigla Gh), rispetto al quale è possibile operare una distinzione tra il suo impiego in ambito sportivo e quello in ambito scientifico. L’ormone cura il nanismo ipofisario, causato proprio dal deficit della secrezione di Gh, nelle donne associato alla sindrome di Turner (mancato sviluppo dei caratteri sessuali). L’assunzione del Gh al solo scopo dopante è attualmente molto diffusa, non soltanto per i suoi effetti visibili (notevole incremento delle masse muscolari e della forza fisica), ma, soprattutto, perché non risulta rilevabile dalle attuali tecniche di controllo antidoping. In altre parole, chi si dopa con il Gh ha la certezza di risultare «pulito» ai test, ne trae un chiaro vantaggio agonistico, è ufficialmente un atleta che non contravviene al principio di lealtà sportiva, osserva apparentemente le regole e può essere indicato come esempio da emulare.

L’uso sconsiderato di Gh, in realtà, rivela che l’etica dello sport si sta progressivamente svuotando di significato, trasformandosi in un’etica capovolta che nega il senso stesso dello sport. Non solo: conferma che esistono medici pronti a fare assumere tale sostanza agli atleti pur conoscendone i disastrosi effetti collaterali. In campo sportivo, l’utilizzo di pratiche mediche dovrebbe essere limitato alla prevenzione di infortuni ed eventuali stati patologici (frequenti conseguenze dell’attività agonistica), al controllo dietetico e nutrizionale, oltre che a quello relativo allo stato di salute psico-fisica dell’atleta. Il compito del medico, infatti, si fonda sulla tutela sempre e comunque della salute, dell’integrità psico-fisica e della vita del suo paziente. Ne consegue che l’eventuale prescrizione di farmaci non associata ad un’effettiva necessità terapeutica rappresenti un atto assai discutibile dal punto di vista etico e deontologico. In forza del principio fondato sull’alleanza terapeutica tra il paziente (in questo caso l’atleta) ed il proprio medico, quest’ultimo deve categoricamente rigettare l’uso di sostanze che esulino dalle finalità proprie della medicina – prevenire, diagnosticare, curare e riabilitare – salvaguardando sia la salute dello sportivo, sia il senso proprio della professione medica. Il medico deve farsi portavoce di un’etica dello sport fondata su valori solidi, quali l’integrità morale nella pratica sportiva, la lealtà ed il fair play. Deve, insomma, divulgare l’etica dello sport attraverso interventi efficaci ed appropriati di educazione sanitaria. Al medico sportivo spetta il compito, arduo quanto cruciale, di sostituire, nelle coscienze degli atleti e, nel complesso, dei giovani, l’insidiosa «cultura del doping» con la sana «cultura dello sport». In definitiva, occorre una profonda e radicale trasformazione dello sport, che non deve riguardare unicamente gli atleti, ma anche le società, gli allenatori, i medici sportivi e, non ultimi, i tifosi. Tutti gli attori coinvolti sulla scena sportiva hanno il dovere morale di lottare contro le piaghe che svuotano di eticità lo sport, quali la diffusione del doping, le astuzie al limite delle regole, la violenza (fisica e verbale), il razzismo, lo sfruttamento, la disuguaglianza delle opportunità, la commercializzazione eccessiva e la corruzione. Una volta spogliatosi degli elementi negativi che lo hanno corroso profondamente, lo sport deve offrire la possibilità – a coloro che lo praticano lealmente – di conoscere se stessi e gli altri, nonché di esprimersi acquisendo, al contempo, capacità tecniche ed interagendo socialmente. Il valore positivo dello sport, tuttavia, deve essere promulgato attraverso la valenza pedagogica che la pratica sportiva racchiude in sé.

Lo sport, infatti, ha il compito di insegnare valori e principi positivi, primo tra tutti la responsabilità. L’atleta è chiamato ad assumere un atteggiamento responsabile non soltanto per se stesso, ma anche per i suoi compagni di squadra, i tifosi e, non ultimi, i suoi avversari. Ogni singola scelta che lo sportivo intraprende si riverserà inevitabilmente – nel bene e nel male – su tutti coloro che lo circondano, persino sulle generazioni sportive future. È proprio sulle coscienze dei più giovani che occorre far leva per cercare di sradicare il cancro del doping. I giovanissimi atleti – non soltanto i professionisti, ma anche i dilettanti – custodiscono la chiave per aprire la porta della trasformazione radicale dello sport. Il cammino che dovrebbe condurre alla tanto agognata trasformazione dello sport, tuttavia, è sicuramente in salita ed irto di ostacoli, primo tra tutti la resistenza – insita nelle società e condivisa da allenatori privi di scrupoli e medici sportivi compiacenti – a modificare lo status quo, contraddistinto dal degrado morale e dal dilagante ricorso al doping. Il primo passo che va sicuramente mosso per tracciare tale cammino è rappresentato dalla consapevolezza che lo sport rappresenta un mezzo costruttivo di crescita psico-fisica e non uno strumento finalizzato al mero perseguimento ossessivo del risultato. L’atleta deve dimostrare e «sentire», per ciascuno dei suoi avversari, lo stesso rispetto che prova per i membri della sua squadra e deve essere profondamente consapevole che, nella vita come nello sport, vincere con l’inganno significa, in realtà, perdere. Chi compete lealmente, in fondo, ha già vinto la sua gara.

Mariaroberta Gregorini
Docente di Etica dello Sport presso l’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”
e di Pedagogia Generale presso l’Università Tor Vergata di Roma

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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