Diritto all’oblio

Michele Iaselli

Mettere i propri dati a disposizione del mondo intero comporta rischi che nessuno espone chiaramente, in particolare ai giovani che saranno i primi a pagare il conto di una società grossolanamente globalizzata.

Diverse sono ormai le definizioni o, meglio ancora, i significati attribuiti dalla dottrina del diritto all’oblio, concetto tornato prepotentemente alla ribalta in ambito internazionale, e principalmente europeo, con l’avvento della Rete.
In sintesi, possiamo definire il diritto all’oblio come il diritto di un individuo ad essere dimenticato, meglio, a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca. Il suo presupposto è che l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è racchiuso in quello spazio temporale necessario ad informarne la collettività e che, con il trascorrere del tempo, si affievolisce fino a scomparire. In pratica, con il trascorrere del tempo, il fatto cessa di essere oggetto di cronaca per riacquisire l’originaria natura di fatto privato(1).
In realtà, l’oblio è un diritto che va oltre la tutela della privacy e che, ad oggi, non trova ancora legittimazione nell’ordinamento nazionale ed europeo.
Frutto di elaborazioni dottrinarie, giurisprudenziali (2) e principalmente delle Autorità Garanti europee, è da intendersi quale diritto dell’individuo ad essere dimenticato; diritto che mira a salvaguardare il riserbo imposto dal tempo ad un notizia già resa di dominio pubblico.
Come fondamento normativo del diritto all’oblio, il nostro Codice della Privacy prevede che il trattamento non sia legittimo qualora i dati siano conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo superiore a quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti o trattati (art. 11 D.Lgs. n. 196/2003). Lo stesso interessato ha il diritto di conoscere, in ogni momento, chi possieda i suoi dati personali e come li adoperi, nonché di opporsi al trattamento dei medesimi, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta, ovvero di ingerirsi al riguardo, chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco, ovvero la rettificazione, l’aggiornamento, l’integrazione (art. 7 D.Lgs. n. 196/2003).
Storicamente, il problema del diritto all’oblio nasce in rapporto all’esercizio del diritto di cronaca giornalistica. Presupposto perché un fatto privato possa divenire legittimamente oggetto di cronaca è l’interesse pubblico alla notizia. La collettività va informata con tempestività, in modo da poter conoscere l’accaduto in tempo reale e con completezza, così da fornirle una visione chiara del fatto. Se viene scoperto un giro di corruzione, è possibile che la notizia debba essere divulgata a più riprese, secondo gli sviluppi graduali della vicenda. Il pubblico dovrà conoscere i soggetti coinvolti nella vicenda, la loro posizione istituzionale, in cosa consistevano i “favori” eseguiti in cambio di denaro, le conseguenze del reato sul funzionamento dell’istituzione interessata e sulla pelle dei cittadini onesti, ecc. Poi, potranno seguire dibattiti sulla vicenda. La diffusione della notizia dovrà, insomma, perdurare necessariamente nel tempo. Ma, una volta che del fatto il pubblico sia stato informato con completezza, cessa l’interesse pubblico, in quanto la collettività ha ormai acquisito il fatto. Non vi è più una notizia. Riproporre l’accadimento sarebbe inutile poiché non sussisterebbe più un reale interesse della collettività da soddisfare. Non solo inutile per la collettività, ma anche dannoso per i protagonisti in negativo della vicenda. Qui la reputazione dei soggetti subirebbe un’ulteriore lesione. E se la lesione è inizialmente giustificata dall’esigenza di informare il pubblico su fatti nuovi, non lo è più dopo che la notizia risulta ampiamente acquisita. A partire dalla sua completa acquisizione, sorgono i presupposti del diritto all’oblio (3).
Il diritto all’oblio è, quindi, la naturale conseguenza di una corretta e logica applicazione dei principi generali del diritto di cronaca. Come non va divulgato il fatto la cui diffusione (lesiva) non risponda ad un reale interesse pubblico, così non va riproposta la vecchia notizia (lesiva) quando ciò non sia più rispondente ad un’attuale esigenza informativa.
Ma, indubbiamente, l’attività giornalistica è stata modificata dallo sviluppo di Internet. La possibilità di raccogliere, incrociare, scambiare ed archiviare informazioni personali si è enormemente accresciuta, consentendo una straordinaria circolazione e diffusione di conoscenze e di opinioni. Questo ha reso anche estremamente difficile esercitare un controllo sulla qualità delle informazioni personali diffuse. In rete circolano notizie vere, non vere, vere solo parzialmente, notizie talmente vecchie la cui riproposizione pone seri problemi all’interessato (4).
Ogni giorno, milioni di utenti devono difendere la propria reputazione elettronica spesso non conoscendone modalità, leggi e contromisure necessarie.
Mettere i propri dati a disposizione del mondo intero comporta rischi che nessuno espone chiaramente, in particolare ai giovani che saranno i primi a pagare il conto di una società grossolanamente globalizzata.
Dopo aver visionato i curriculum forniti dagli aspiranti ad un posto di lavoro, la maggior parte delle aziende effettua controlli incrociati sui social network, “spiando” le abitudini quotidiane degli ignari candidati, i quali, innocentemente, eccedono spesso nella trasparenza delle loro biografie.
Il desiderio di apparire, stupire ed essere protagonisti ad ogni costo si trasforma in un’arma pericolosa e la schedatura volontaria di massa garantisce ai massimi sistemi accurate indagini di mercato ed analisi comportamentali vendute a carissimo prezzo alle multinazionali di produzione.
Le legittime richieste di cancellazione o aggiornamento devono anche tener conto dei diversi luoghi virtuali in cui tali informazioni compaiono: sul sito, sulla copia cache della pagina web, sui titoletti che costituiscono il risultato dell’estrazione tramite motore di ricerca. Ognuno di questi luoghi ha un titolare di trattamento diverso e, per i gestori dei motori di ricerca extraeuropei, c’è l’ostacolo della disciplina applicabile. Una volta entrati nel circuito elettronico della rete, insomma, è davvero difficile far valere i propri diritti (5).
L’applicazione di questi principi, riconosciuti ormai anche a livello di Costituzione europea, trova ostacoli seri, a volte anche di difficile soluzione, quando il trattamento dei dati personali avviene sul web. Ed è proprio in ambito comunitario che, di recente, è stata affrontata la problematica del diritto all’oblio. Il 25 gennaio scorso, la Commissione ha proposto una riforma globale della normativa UE del 1995 in materia di protezione dei dati che contiene, fra le altre misure, anche quella del cosiddetto ‘’diritto all’oblio’’: chiunque potrà cancellare definitivamente dal web i propri dati se non sussistano motivi legittimi per mantenerli.
In particolare, la riforma punta a creare un insieme di norme stabile e coerente che permetta, da una parte, la crescita del business virtuale nel Vecchio Continente (“i dati personali sono la valuta del mercato digitale”, ha affermato la Reding in conferenza stampa) e, dall’altra, di tutelare al meglio la privacy degli utenti sul web.
La proposta si articola in una direttiva e in un regolamento e prevede sanzioni fino ad un milione di euro o fino al 2% del fatturato di un’azienda. Passerà ora al vaglio del Parlamento europeo e dei singoli Stati.
Tra coloro sui quali la norma avrà certamente un impatto ci sono i social network: da oggi, spetterà a loro l’onere di provare che la conservazione di una certa informazione è necessaria e non all’utente dimostrare il contrario.
A questo punto, dopo aver esaminato diversi aspetti del diritto all’oblio, avuto riferimento in particolare al mondo della Rete, è opportuno capire quale sia il vero significato di tale diritto. La richiesta del riconoscimento del diritto all’oblio ci porta ad affrontare questioni non solo tecniche, ma anche di carattere sociale ed umano. Confondere privacy e diritto all’oblio è un rischio, soprattutto se fatto con lo spirito di promuovere un tema importante: quello della consapevolezza di come i nostri dati vengano utilizzati dagli attori che gestiscono i servizi da noi quotidianamente sfruttati. Come ben sappiamo, Facebook, Twitter, Google, ecc. sono ben lungi dall’offrire, come moderni benefattori digitali, servizi gratuiti ai loro utenti. Tutt’altro: l’accesso a Facebook, la mail di Google, l’uso di Twitter sono pagati a caro prezzo. Da tempo questi colossi del web stanno annunciando nuove regole della privacy che, guarda caso, sembrano “particolarmente” rispettose dei diritti degli utenti. Ma, come è noto, la stessa Unione Europea ha manifestato una certa diffidenza verso queste politiche di privacy. D’altronde, come si può pensare che, in questo particolare periodo storico, colossi come Google, Facebook, Yahoo! possano rinunciare all’immenso patrimonio a loro disposizione costituito da milioni di dati personali spendibili per soddisfare le esigenze di marketing di milioni di aziende? È chiaro che questa grande pubblicità del cambiamento serve per illudere su una trasformazione che non potrà mai esserci, anche se si farà di tutto per farla sembrare tale. Provider come Google mettono a disposizione degli utenti tantissimi servizi e sarà fin troppo facile ottenere il consenso ad utilizzare i dati personali dei navigatori in cambio di qualche utile applicazione. Non possiamo pensare che Google non approfitti della situazione. Il problema è che questo consenso non sarà sempre consapevole. Spesso, sarà conseguente ad un’informativa non troppo chiara o, comunque, troppo generica. In tale ottica, è tutto molto semplice: alcuni operatori ci offrono dei servizi e noi li paghiamo con delle informazioni. A complicare le cose, non è il fatto in sé, quanto, piuttosto, la constatazione che, spesso, le persone che usano tali servizi lo fanno nella beata convinzione di usare servizi gratuiti. Ed è questo il vero problema. Non percepire la contropartita composta dal valore delle proprie informazioni. La privacy rappresenta, quindi, il sacrosanto diritto alla riservatezza che si esprime nella possibilità di scegliere se condividere o meno le proprie informazioni personali; il diritto all’oblio rappresenta, invece, quel fenomeno per il quale, dopo averle condivise, quelle informazioni, prima o poi, debbano scomparire. E, nell’era di Internet, quel “poi” è posto sempre più in là. Ma, mentre la privacy è un diritto (pur mutevole nel tempo) di valore assoluto, può dirsi lo stesso del “diritto” all’oblio?

(1) FINOCCHIARO G., La memoria della Rete ed il diritto all’oblio, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, Milano, 3/2010
(2) In Italia assumono rilevanza alcune decisioni della Corte di Cassazione come Cass., 9/4/1998, n. 3679; Cass., 25/6/2004, n. 11864 e, da ultimo, Cass., 05/04/2012, n. 5525
(3) http://www.difesadellinformazione.com/113/il-diritto-all-oblio/
(4) FIDELIO A.- GUASTELLA S., Motori di ricerca e diritto all’oblio in Rivista di diritto, economia e gestione delle nuove tecnologie, Milano, 4/2005
(5) PAISSAN M., “Privacy e Giornalismo”, Roma, 2008

Michele Iaselli
Presidente Associazione nazionale difesa privacy

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