Facciamo sì che lascino l’inferno

Michele Saccomanno

Ho visto ed ho toccato un ammalato nudo, rinchiuso in una stanza fredda, disteso su una brandina su cui si adagiava un materasso provvisto di foro centrale per la caduta degli escrementi in una pozzetta. Aveva polsi e caviglie legati.

Come si può confortare un ammalato psichiatrico? Non certo come gli altri ammalati: egli non sa di esserlo. La complicità ragionata o emotiva, umanamente vissuta in qualsiasi disagio, si interrompe nella “follia”. Ho incontrato, fin da bambino, prima ancora che da medico e da politico, la malattia psichiatrica. In un manicomio, con i miei genitori, ho fatto visita ad un “pazzo”. L’ho visto vivo. Con lui ho visto il vagare nei giardini o nei corridoi di quel carcere chiamato manicomio. Ho visto tanti uomini persi nel vuoto dei loro sorrisi, dei loro dondolii raccapriccianti. E l’ho anche visto morto, raggomitolato su un tavolo di marmo, irrigidito in una ritrovata posizione fetale. C’erano i manicomi. Lì si internavano gli ammalati estranei e segnati, interrompendo la loro vita vera, a volte solo perché colpevoli di aver procurato vergogna ai loro familiari. Il Professor Basaglia rivoluziona questa immagine e rende il “pazzo” un “ammalato psichiatrico”. Una persona con cui l’umanità si relaziona in un rapporto di “cura”, più che di sola terapia. Impieghiamo oltre vent’anni per chiudere quei luoghi di segregazione. È stata una lotta impari, combattuta tra una visione illuminata che cercava di immaginare un percorso di dignità per una malattia le cui stimmate del disagio sono infinite, ed una cultura generale che ha sempre cercato di proteggersi dalla malattia isolandola, esorcizzandola. Grazie alle mie responsabilità istituzionali, ho potuto chiudere, sia pure tra mille difficoltà, i grandi manicomi pugliesi. Oggi, nell’intraprendere l’attività della Commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, ho chiesto di monitorare l’applicazione della legge Basaglia. Da lì sono nate un’esperienza ed una conoscenza nuove, per alcuni versi drammatiche, della malattia psichiatrica. Ci sono persone e luoghi, in questa lunga e variegata Italia, in cui il cittadino ammalato psichiatrico è non solo curato e conservato alla sua vita, ma spesso riguadagna un lavoro, una famiglia, un ritorno nella società. A Trieste ho visto un’”accoglienza”, non “un ricovero”, in luoghi di cura territoriali aperti. Ho trovato famiglie riunite a confrontarsi e ad aiutarsi in questo percorso non più di frustrante solitudine, per loro fortuna. Poi, un aereo, o una macchina, mi hanno trasferito in luoghi in cui, per questi malati, è difficile anche solo trovare un posto in ospedale. Mi imbatto in centri di salute mentale aperti solo poche ore al giorno e mai nei festivi o di notte. Proprio la notte e le festività acuiscono ancor di più la solitudine in questo disagio mai accettato, al massimo tollerato.

Ma i drammi di questa malattia si fermano sull’uscio di servizi disorganizzati o mai organizzati? No, purtroppo. Nel mio peregrinare nell’ambito dei lavori della Commissione, ho incontrato un ammalato che io stesso, pur essendo medico, non conoscevo “de visu”: il “pazzo criminale”. Non è una definizione nosologica, è solo la maschera dietro alla quale la nostra società, la nostra Italia, ha nascosto ciclicamente circa 1.500 persone. Alcuni, è vero, hanno ucciso, hanno commesso reati gravi. Altri, invece, hanno solo rubato una bicicletta, hanno finto una rapina, hanno resistito ad un pubblico ufficiale, hanno minacciato un familiare e sono stati classificati “incapaci di intendere e di volere” e “socialmente pericolosi”. Quel giorno, sono stati assolti dal loro reato, ma sono stati condannati a perdere la dignità della persona umana, il diritto alle cure e, per ciò che ho visto, il diritto alla vita. Sono sei gli istituti in Italia chiamati Ospedali Psichiatrici Giudiziari (un eufemismo per indicare i manicomi criminali). Non possiedono nulla dell’ospedale: mancano i medici, sono insicuri per le emergenze anche di carattere non psichiatrico, sono più invivibili delle stesse carceri. Non sono tutti uguali, ma presentano tutti un aspetto in comune: in essi sono sparpagliati circa 400 internati dimissibili, non più pericolosi secondo medici e giudici, ma trattenuti lì solo perché la società, le Asl, le famiglie, noi, non li vogliamo più. E lo Stato? Alcuni non hanno mai visto un giudice, eppure sono internati da anni. Pericolosi, ma mai giudicati. Altri hanno scontato la loro condanna, ma permangono immotivatamente reclusi per decenni (ho incontrato persone internate da 27 anni!). “Ergastoli bianchi”. In queste sei strutture ci sono i “pazzi” che non conoscevo, e che l’Italia non conosce. Il Presidente Napolitano ci ha ringraziato perché abbiamo sollevato un pesante tappeto al di sotto del quale, per decenni, abbiamo nascosto degli uomini in luoghi di alienazione. Ho visto ed ho toccato un ammalato nudo, rinchiuso in una stanza fredda con le mattonelle bianche (a metà, nel ricordo, tra una macelleria ed una sala settoria), disteso su una brandina su cui si adagiava un materasso provvisto di foro centrale per la caduta degli escrementi in una pozzetta.

Aveva polsi e caviglie legati, ma non si sapeva e non si poteva leggere su nessun registro chi ne avesse ordinato “la gogna”, il tempo e per quali cause. Uomini ammassati con letti a castello (proibiti dalla legge) tra effetti letterecci ormai marroni per il luridume. C’era chi cucinava negli angoli dei bagni alla turca, con l’acqua dei cessi che si confondeva con quella che saltava dalle padelle. In estate, in quei luoghi senza oasi di alcun genere, molti infilavano le bottiglie nello scarico del bagno per rinfrescarle o per non far risalire i topi. Spesso, gli angoli delle stanze ricordavano più il lerciume sotto i ponti che un luogo ospedaliero, un luogo di cura, sia pure alla lontana. Le urine al suolo erano talvolta così spesse da non far scivolare il nostro passo, ma forse da far inciampare il loro. “Pazzi” da non curare nemmeno per altre malattie, come fratture o diabete. Queste donne e questi uomini possiedono ancora caratteristiche “umane”? Sono entrato a Montelupo Fiorentino. Ho visitato una stanza di internati in quella bella villa medicea trasformata oggi in OPG. Ho trovato un giovane che defecava dietro un piccolo muretto, oltre il quale era sdraiato un altro compagno di cella. Nessun rossore, nessuna meraviglia: è ormai così alienato che anche il suo corpo, nella sua più cruda nudità, è diventato merce pubblica senza valore. Ad Aversa, un anziano, condannato a dieci anni di reclusione e cura in un ospedale psichiatrico per aver ammazzato un sacerdote, ci chiedeva in modo cortese se fossimo “uomini di legge” e, se tali, perché mai partecipassimo a processioni di così inutile curiosità senza intervenire in casi come il suo. Aveva scontato per intero la sua pena, ma era ancora recluso, a distanza di oltre dieci anni dalla conclusione della condanna, solamente perché la sua Asl non intendeva prenderselo in carico. Non siamo stati capaci di rispondergli. Non ci chiedeva altre promesse, ma fatti. Siamo tornati dopo due mesi, forse per raccontargli i timidi passi compiuti. Era morto senza essere mai tornato veramente a vivere. Un “trans gender” chiuso in una stanza perché innamorato. Isolato da mesi oltre la sua condanna. Con quale diritto? Un ammalato psichiatrico “femminiello” rinchiuso da 25 anni: qualcuno si vergognava di lui. Può accadere? È accaduto. Oggi è libero, smarrito in una vita che non riconosce più. Ho incontrato una sofferenza inflitta gratuitamente nella dimenticanza e nel silenzio di una società che ti marchia di “follia” e ti getta vivo in una tomba. Non immaginavo questo mondo psichiatrico in così grave sofferenza. Contro di esso, per cancellarlo, per superarlo, oggi, dopo le nostre denunce, c’è un Parlamento che deve misurarsi con la “civiltà”. Gli ammalati hanno diritto alla dignità della persona ed alla salute. E dobbiamo garantire a questi particolari ammalati psichiatrici di essere trattati come cittadini di serie A, come tutti gli altri. Preoccupiamoci anche di onorare il nostro “debito” maturato nei loro confronti. Facciamo sì che lascino l’inferno ed escano a “rivedere le stelle”.

Michele Saccomanno
Senatore, medico chirurgo ortopedico, Membro della 12ª Commissione permanente (Igiene e sanità)
Membro della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia
e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale

 

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