Senza parole

Debora Serracchiani

Se è stato archiviato positivamente l’accordo di impedire l’aumento della temperatura di non più di due gradi entro il 2050, si è rinunciato però ad indicare una via. Il che, evidentemente, somiglia molto a non aver deciso nulla.

Durante lo svolgimento del vertice di Copenaghen, un capodelegazione francese ha paragonato l’accordo sul clima concluso dalla Conferenza al patto di Monaco del 1938, che per la vacuità della politica di Francia e Inghilterra aprì la strada al nazismo. Gli ambientalisti hanno accusato i paesi ricchi, a cominciare dagli Stati Uniti, e i giganti emergenti, India e Cina in testa, di essere come irresponsabili ed egoisti, incapaci di rinunciare ai loro calcoli di bottega nell’interesse dell’umanità. I piccoli Stati sulle isole del Pacifico, condannati a certa scomparsa se non si interromperà l’attuale corso dei cambiamenti climatici, hanno giudicato l’accordo irricevibile.
Hanno ragione. Probabilmente ha una visione più precisa chi misura il tempo concesso alla sopravvivenza in base al calore dell’alito che sta sciogliendo i poli.
Al vertice di Copenaghen hanno prevalso, ancora una volta, le vecchie logiche di attaccamento al principio della sovranità nazionale, e questa è una miopia al tempo stesso prevedibile e sconvolgente.
A Obama va riconosciuto almeno l’impegno ma non si va molto oltre. Gli Stati Uniti hanno ritenuto di uscirne con un metodo sperimentato, cioè posando sul piatto del negoziato un cospicuo gruzzolo di dollari. Non solo, gli Stati Uniti hanno operato attraverso intese bilaterali con gli altri potenti della terra, in questo caso essenzialmente con la Cina che è stata la grande frenatrice di una accordo di sostanza. Gli USA, ciononostante, dovranno però prima o poi riconoscere che la salvaguardia del pianeta è un’urgenza per tutti, loro inclusi, e che in suo nome sarà non solo doveroso ma inevitabile rinunciare ad alcune prerogative.

Il problema è anche e soprattutto un problema di democrazia, perché le risorse che si consumano sono patrimonio comune dell’umanità intera. Basta gettare l’occhio ad alcuni numeri. Un cittadino americano emette in media 22 tonnellate di anidride carbonica in un anno, un europeo la metà, un cinese 4 ed un africano appena 0,2. È evidente però che gli effetti negativi si riversano su tutti, anzi, spesso, maggiormente sui Paesi in via di sviluppo, più esposti ai processi di desertificazione o a catastrofi naturali, anche perché inadeguati a gestire le emergenze, come dimostrano le recenti e recentissime catastrofi. Affinché incontri come quello di Copenaghen portino risultati, sarebbe necessaria una riforma radicale degli organi di rappresentanza della comunità internazionale, ossia in primo luogo riferisco alle Nazioni Unite che oggi sono in balìa degli egoismi dei Paesi più forti. L’Onu, in questo frangente, ha infatti confermato la sua crisi e dunque l’esigenza di una riforma radicale del suo statuto e delle sue modalità di lavoro: la gestione della conferenza è stata infatti giudicata estremamente deludente, a partire dall’assurda scelta di tenere le Ong escluse dai lavori.
Del vertice di Copenaghen, sul quale s’erano concentrate le speranze dell’umanità più sensibile al problema, ci rimane solo il ricordo di un grande evento mediatico?

Certo i miseri risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se è stato archiviato positivamente l’accordo di impedire l’aumento della temperatura di non più di due gradi entro il 2050, si è rinunciato a però indicare una via. Il che, evidentemente, somiglia molto a non aver deciso nulla.Ben più drastiche avrebbero dovuto essere le misure da adottare.
La commissione speciale sul cambiamento climatico istituita presso il Parlamento europeo, per esempio, aveva presentato una proposta per tagliare i gas serra del 20% entro il 2020, incentivando l’uso delle energie rinnovabili, fino a farle incidere sul 20% del consumo energetico. Ma anche questa proposta però è stata bocciata. E così ci rimaniamo bloccati in un stallo insostenibile, del quale prima o poi ci verrà presentato il conto. Non manca mai chi prova a farci credere che le soluzioni alternative non ci sono o sarebbero impraticabili, eppure c’è anche chi ci ricorda, come il premio Nobel Carlo Rubbia, che basterebbe un quadrato di 200 km di lato di impianti solari a concentrazione per produrre l’energia oggi ricavata dal petrolio. Ciò detto, sarebbe sbagliato anche considerare Copenaghen come tempo perso, e si può condividere l’opinione del presidente della Commissione europea Barroso, secondo cui un cattivo accordo è meglio di nessun accordo.
E qualcosa di buono in quel cattivo accordo c’è.

Un passo avanti, in una certa misura concreto, è stato fatto a proposito della cosiddetta Redd (Riduzione delle emissioni da deforestazioni), cosicché si dovrebbero impostare delle compensazioni ai Paesi che salvaguarderanno le proprie foreste tropicali. E per la prima volta tutti i Paesi del mondo hanno accettato il principio di impegnarsi in un quadro multilaterale per diminuire, seppure su base volontaria, le proprie emissioni dannose per il clima. Sempre per la prima volta, un presidente degli Stati Uniti ha messo nero su bianco in una sede internazionale la volontà di partecipare a questo sforzo, con una riduzione delle loro emissioni del 17 per cento entro il 2020 rispetto al 2005, e la scelta di farlo anche a prescindere dal raggiungimento di un accordo globale. Si è fatta avanti la convinzione che la lotta ai cambiamenti climatici è oggi condizione irrinunciabile per lo sviluppo.
L’Unione Europea, per una volta, è stata all’avanguardia, confermandosi apripista nell’impegno per la stabilizzazione del clima. Ma al tempo stesso non si è dimostrata ancora all’altezza di una vera leadership globale.
Un velo di silenzio sul contributo dell’Italia. Qui la maggioranza di Berlusconi vota in Senato mozioni che negano l’esistenza dei cambiamenti climatici, mentre il sindaco di Roma lancia un piano energetico-ambientale che permetterà all’edilizia di divorare altro suolo agricolo.
Si è segnalata la capodelegazione italiana, il ministro Stefania Prestigiacomo, che mentre Obama, Sarkozy, Brown e Merkel concordavano in videoconferenza i passi per giungere a un accordo, ha creduto opportuno lasciare il vertice e di dedicare la sua giornata a presentare la nuova bicicletta elettrica prodotta dalla Ducati.

Debora Serracchiani
Deputata al Parlamento Europeo

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