Stati Uniti d’Europa

Lara Comi

Armonizzando il mercato interno, si eliminerebbero anche le distorsioni che si riflettono in una mancata crescita. Finché ci saranno diversi regimi tributari, differenti aliquote Iva, differenti costi del lavoro, il capitale si sposterà dove conviene

comiLa partita in gioco per le prossime elezioni europee del 25 maggio 2014 sarà tra i sostenitori «no euro» e chi, da europeista, chiederà un cambio di passo all’Europa stessa. Oggi nessuno vuole lo status quo. Temi come l’elezione diretta del Presidente della Commissione Europea, un’unica politica estera e di difesa, l’armonizzazione dei sistemi di tassazione, gli eurobond, il superamento in maniera «intelligente» del tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil, la modifica dei compiti della Banca Centrale Europea sul modello della Fed, una politica energetica comune, una strategia per l’occupazione dei giovani e per le politiche dell’immigrazione debbono trovare accoglienza a pieno titolo nell’agenda europea. Occorre una svolta, un’Europa meno burocratica che accolga maggiore partecipazione dei cittadini, altrimenti si rischia di fare il gioco dell’euroscetticismo.

SUPERAMENTO AUSTERITY
Di fronte alla crisi finanziaria, poi sfociata in crisi economica, l’Europa si è mossa in ritardo. La prima medicina è stata quella dell’austerity, che ha però innescato un processo di restrizione della liquidità del sistema. Un riflesso condizionato che ha portato a replicare uno degli errori compiuti dopo la drammatica crisi del ’29. Sono stati varati il «six-pack» ed il «two-pack» per un maggiore controllo delle politiche di bilancio, ma poi si è visto che il solo rigore non bastava, anzi rischiava di aggravare la situazione. Citando l’economista e Premio Nobel Joseph Stiglitz, possiamo affermare che l’austerity è stata una ricetta molto simile ai salassi medievali che, a furia di togliere sangue ai pazienti, li uccidevano anziché guarirli.

DEFICIT DEMOCRATICO
Se vogliamo salvare l’Unione Europea ed impedirne la dissoluzione, dobbiamo anche rafforzarne le istituzioni democratiche.
Ben vengano gli strumenti di maggiore Democrazia partecipativa (ad aprile del 2012 è entrato in vigore l’Ice, il regolamento sull’Iniziativa dei cittadini europei), ma non possiamo prescindere da alcuni punti essenziali:
– Un ruolo più forte del Parlamento Europeo, espressione della volontà dei cittadini che lo hanno eletto con voto a preferenza, attraverso un ulteriore ampliamento della sua potestà legislativa;
– Una veste più democratica della governance, ovvero della Commissione Europea, attraverso, per esempio, l’elezione popolare diretta del suo Presidente.
È pur vero che il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, ha conferito maggiori poteri al Parlamento e ne ha ampliato le facoltà in settori prima di competenza esclusiva del Consiglio. Ha inoltre stabilito che elegge, non solo «accetta», come in precedenza, il Presidente della Commissione. Per la prima volta, dunque, il Parlamento Europeo che uscirà dalle elezioni, e non più i Governi, nominerà il nuovo Presidente della Commissione, incarico mai affidato ad una donna. Un passo avanti, ma bisogna fare di più.

LIMITI DELLA BCE
Servono modifiche anche dei Trattati, se vogliamo liberare gli Stati gravati da un alto debito pubblico dalla condanna ad essere succubi della speculazione finanziaria internazionale, spesso alimentata dalle agenzie di rating. La Bce, per esempio, deve diventare prestatore di ultima istanza sul modello della Federal Reserve americana. Continuare ad esercitare il mero ruolo di stabilizzatore dei prezzi è insufficiente. Il pericolo, oggi, non è rappresentato dall’inflazione, ma, semmai, dalla deflazione. La Bce deve, dunque, incidere maggiormente sull’economia reale.

LIMITI DEL PATTO DI STABILITA’ EUROPEO
Le politiche nazionali sono imbrigliate da un patto di stabilità europeo che impone parametri fissi. Questi impediscono di aumentare la spesa pubblica a deficit (rapporto del 3% deficit/Pil) e a debito (convergenza verso il 60% del rapporto debito/Pil dal 2015). Sono paletti, però, che, complice la crisi, nessuno oggi riesce a rispettare. Nel 2012, ben 18 Stati su 28 hanno sforato il 3%. Oggi, Stati come la stessa Francia e la Spagna continuano a sforare. 17 Ministri dello Sviluppo su 24 hanno sottoscritto un documento in cui chiedono la revisione del Patto di stabilità in favore degli investimenti. La Germania, però, non l’ha firmato. La stessa Germania che, nel 2003, sforò il tetto del 3% per riformare il mercato del lavoro.

STATI UNITI D’EUROPA
È stata finalmente tracciata una road map verso le quattro unioni: bancaria, economica, fiscale e politica. Ma l’impressione è che l’Europa risponda troppo lentamente ai cambiamenti. A quando un «fisco europeo»? I benefici sarebbero quantificabili non solo nella misura della maggiore riscossione di imposte grazie al contrasto all’evasione ed all’elusione fiscali. Basterebbe ricordare che, ogni anno, circa mille miliardi (cifra pari al budget settennale dell’Unione) fuggono al fisco dei 28 Paesi Ue. Armonizzando il mercato interno, si eliminerebbero anche le distorsioni che si riflettono in una mancata crescita. Finché ci saranno diversi regimi tributari, differenti aliquote Iva, differenti costi del lavoro, il capitale si sposterà dove conviene. La questione non è la concorrenza fiscale, come spesso ci siamo sentiti dire da alcuni Stati che beneficiano di queste discrepanze e sono tra i più ricchi dell’Unione. La questione è se vogliamo costruire gli Stati Uniti d’Europa. Non si può essere europeisti di comodo o a corrente alterna. Quando vedo Stati, come Malta, che mettono in vendita la cittadinanza europea per fare cassa mi viene qualche dubbio.

Lara Comi
Europarlamentare del gruppo Ppe, già vice coordinatrice del PdL Lombardia e coordinatrice PdL della provincia di Varese

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