75 milioni di bambini e bambine non potranno raggiungere il livello di istruzione primaria. Una delle principali cause di questo fenomeno sono l’aumento delle guerre che coinvolgono i bambini e le bambine come vittime e/o come protagonisti attivi.
La condizione delle bambine nelle società dell’Africa è degna di una analisi particolare perché in questo continente persistono ancora forme di discriminazione della donna che hanno radici profonde nella cultura di molti gruppi. Parecchie bambine vengono ancora allevate ed educate negando loro ogni diritto che le ponga in una stato di uguaglianza nei confronti dei bambini loro coetanei privandole così della possibilità di accedere a livelli di pari opportunità nella vita sociale, culturale ed economica delle loro comunità. Nella maggior parte delle culture africane, come anche in altre società, i bambini vengono generalmente educati ed incoraggiati ad esercitare funzioni che li portano al di fuori dalle pareti domestiche, ad assumere ruoli di prestigio nelle istituzioni della propria comunità a provvedere alla coltivazione o al reclutamento delle risorse alimentari necessarie per la sopravvivenza della famiglia e del gruppo; mentre le bambine sono educate sin dall’infanzia all’accudimento della prole, alle attività domestiche ed hanno una relativa e limitata partecipazione alle funzioni pubbliche ed alla produzione di beni.
Le diversità di genere risultano evidenti se si analizzano considerando tutti quegli aspetti che dovrebbero caratterizzare un normale processo evolutivo di ciascun bambino. Uno di questi è l’istruzione. Secondo il rapporto Unicef 2005 sulla condizione dell’infanzia nel mondo, si prevede che il diritto di tutti i bambini e bambine della popolazione mondiale di raggiungere un livello di istruzione primaria sarà garantito entro il 2015 solo per una parte di loro. Non potranno godere di questo diritto ben 75 milioni di bambini e bambine il 70% dei quali appartiene alla popolazione dell’Africa sub-sahariana. In questa percentuale di analfabetismo è compreso il fenomeno molto importante della disparità del livello di istruzione che raggiungono le bambine rispetto ai bambini. Proprio per la funzione che svolgono all’interno della famiglia e della società gli adulti non riconoscono alle bambine l’utilità, la necessità o il diritto di acquisire le più elementari competenze nella scrittura e lettura e tanto meno la possibilità di frequentare un corso di studi primario e secondario. Eppure, come sostiene Andri Isaksson, capo dell’ufficio di collegamento dell’ Unesco a New York, ” Secondo un detto popolare, se si insegna ad un uomo si insegna ad una persona, ma se si insegna ad una donna si insegna a tutta una famiglia. Dare ad una bambina la possibilità di frequentare una scuola significa trasmetterle una serie di conoscenze che riguardano l’educazione all’igiene, ad una corretta alimentazione, alla cura della salute, al rispetto per l’ambiente sino a metterla in grado di sperimentare diverse opportunità di realizzazione al pari dei maschi. Come sostiene William H. Draper, amministratore dell’UNDP “In quanto madre, la donna è la prima educatrice dei figli e consigliera per le altre donne. Sappiamo pure che una donna che sappia leggere e scrivere ha meno bambini ed ha figli più sani. E ciò conduce a un più basso tasso di incremento demografico. Se sa leggere e scrivere la donna vuole che i propri figli siano istruiti e ciò comporta una maggiore frequenza e una riduzione del tasso di evasione scolastica da parte delle ragazze”.
La disuguaglianza di genere nella scuola primaria e secondaria, che ha motivazioni di carattere culturale ed economico. La realizzazione del progetto Tostan in Sénégal ha dimostrato con successo come sia possibile dare accesso all’istruzione e favorire la frequenza scolastica senza l’utilizzo di ingenti mezzi finanziari. Per realizzare ciò si è cercato infatti di adeguare l’organizzazione della scuola e la preparazione della didattica, generalmente d’importazione europea od occidentale, al contesto locale delle comunità, al loro stile di vita, prendendo spunto dalle tecniche di trasmissione e di “educazione informale” proprie della cultura tradizionale come ad esempio la danza e la musica. Nella Sierra Leone è stato attuato un progetto di alfabetizzazione e di educazione civica per la donna con l’obiettivo di farle prendere coscienza dei suoi diritti e doveri riconosciuti dalla costituzione. Una indagine svolta dall’Unesco ha evidenziato come la percentuale delle donne analfabete risulti essere molto più elevata nelle zone rurali rispetto a quelle urbane. Nelle prime infatti le donne sono costantemente impegnate nel lavoro nei campi oltre che nel lavoro domestico ed hanno in media una gravidanza ogni due anni. Nel Benin dell’Africa occidentale l’incidenza dell’analfabetismo delle donne che abitavano in zone rurali registrato nel 1988 era del ben 92.1% mentre nelle zone urbane scendeva al 59%.
In molti Paesi dell’Africa, nonostante l’apporto determinante che forniscono alla famiglia ed alla comunità nel lavoro domestico e nell’economia di sussistenza, le donne non hanno conquistato un minimo grado di indipendenza economica. Una ricerca dell’ONU svolta sull’intero territorio africano mette in evidenza che il 60% dei lavori agricoli è a carico delle donne. In Tanzania si è rilevato che lavorano in media 2600 ore l’anno rispetto alle 1800 ore degli uomini. Dal momento che esse non sono pagate, come è evidenziato nello Studio sull’Economia Mondiale del 1990, ” la loro produzione non si integra nell’economia monetaria e il lavoro delle donne scompare del tutto dai bilanci nazionali”. Un altro impedimento che riduce ulteriormente la possibilità che le bambine africane frequentino corsi di alfabetizzazione è rappresentato dall’atteggiamento contrario di molti uomini che preoccupati dal doversi confrontare con donne più istruite di loro temono di perdere prestigio e potere in seno alla società. Così afferma una moglie sudafricana:” I nostri mariti non desiderano che noi frequentiamo classi di alfabetizzazione quando essi stessi sono analfabeti e, se la cena ritarda, diventano collerici”.
Rispetto agli aspetti di carattere sanitario collegati al rischio di contrarre gravi malattie epidemiche ed a causa della grande diffusione dell’HIV in Africa, i bambini sono stati da sempre i più vulnerabili ed esposti al contagio. La natalità infantile in Africa è elevata ma altrettanto lo è la mortalità nei primi anni di vita se la compariamo ai paesi dell’occidente industrializzato.
In modo particolare va osservato che in alcune regioni dell’Africa come, principalmente, la Somalia ed in misura minore in Etiopia, in Kenia, nel Mali, in Nigeria in Egitto e nel Sudan è diffusa la pratica della infibulazione e della circoncisione femminile che viene effettuata quando le bambine hanno raggiunto un’età di circa nove anni. Questi particolari interventi hanno profonde radici sociali e culturali, anche se agli occhi di noi europei appaiono come usanze barbare e ingiuste. Le mutilazioni genitali femminili possono presentare conseguenze mediche che vanno dalla morte per shock emorragico o settico a gravi emorragie e ad infezioni di varia entità. Il cammino per cercare di eliminare la pratica delle mutilazioni genitali che si tramanda attraverso una tradizione millenaria da madre in figlia, a danno della salute delle bambine e future donne è lungo ma è stato già avviato ad esempio con progetti mirati di educazione alla salute o con programmi che assicurano mezzi di assistenza alternativi alle mammane e ai guaritori tradizionali. Alcuni studi hanno dimostrato che in Africa, tra le nuove generazioni scolarizzate, si va diffondendo una cultura più consapevole dei diritti della donna, che deve essere sostenuta da un’opera paziente e capillare di formazione e di informazione.
I bambini non decidono di iniziare una guerra, non sono spesso in grado di comprendere perché essa avvenga eppure essi sono le prime vittime esposte alle conseguenze letali, dirette o indirette, di ogni conflitto. La tragedia del Darfur in Sudan ha mostrato quanto il mondo non sia stato in grado di garantire ai bambini l’opportuna protezione di cui hanno diritto. E’ avvenuto infatti che nell’ottobre del 2004 più di un milione di bambini del Sudan sono stati strappati con violenza dalle loro radici familiari e culturali ed una gran parte di essi è stata uccisa dalle milizie armate. Chi è riuscito a salvarsi fuggendo nel Ciad si è trovato ad affrontare una dura lotta per la sopravvivenza contro le malattie e le epidemie, la carenza di cibo, di acqua e di alloggi. Allo stesso tempo i tragici avvenimenti del Darfur hanno avuto come effetto l’interruzione delle trattative di pace intraprese, nel Sudan meridionale, tra il governo ed il People’s Liberation Movement Sudanese per porre fine al conflitto che si protraeva dal 1983 e che sembrava ormai giunto alla risoluzione. Ciò che è avvenuto nel Sudan costituisce solo un esempio fra molti dell’inevitabile coinvolgimento di bambini nei conflitti armati e porta a considerare come negli ultimi decenni siano mutati gli scenari della guerra e il tipo di vittime civili implicate. Le guerre incidono drammaticamente sulla vita dei bambini. Alcuni di loro sono uccisi ma chi riesce a salvarsi può rimanere ferito, senza famiglia, essere rapito, vittima o spettatore di atroci violenze, costretto alla fuga, esposto alle malattie ed a vivere nel terrore. In conseguenza della guerra i bambini sono privati di servizi per loro essenziali come l’istruzione o l’assistenza sanitaria.
I bambini soldato o che fanno parte in modo diverso delle forze impegnate nei conflitti sono numerosi e si stima che essi siano centinaia di migliaia. I gruppi armati e le forze governative rapiscono i bambini o li obbligano ad arruolarsi; si servono di loro perché è facile addestrarli ad uccidere e ad obbedire agli ordini. E’ preoccupante il dato che attribuisce il maggior numero di bambini combattenti ai continenti Asiatico e Africano ed ancora più allarmante è il fatto che tale numero non tenda a decrescere bensì ad aumentare. Come rileva il rapporto Unicef 2005 nel “2003 c’è stato un forte incremento dei reclutamenti di bambini in Costa d’Avorio, nella Repubblica Democratica del Congo e in Liberia. Nel Congo in particolare sono state denunciate atrocità, stupri e percosse a danno dei bambini. Nell’Uganda del Nord migliaia di bambini sono stati rapiti dal gruppo ribelle Lord’s Resistance Army, costretti a combattere e ridotti in servitù” (2004,p.44).
Nei rapporti degli Organismi Internazionali si leggono i termini generici “bambini soldato” che fanno pensare al solo utilizzo di bambini combattenti maschi. In realtà la “schiera” dei bambini soldato comprende un considerevole numero di bambine e ragazze. Eserciti delle forze governative e gruppi dell’opposizione armata di ben 55 paesi hanno arruolato tra il 1990 e il 2003 bambine e ragazze che hanno partecipato attivamente a 38 conflitti. Una spiegazione dello scarso rilievo dato all’esistenza di ragazze soldato si può ritrovare nel fatto che i ragazzi erano considerati come veri e propri soldati diversamente dalle bambine che erano principalmente relegate al ruolo di “mogli” o di “schiave sessuali” dei soldati adulti. Soltanto in questi ultimi anni sta emergendo il dato che le bambine e le ragazze hanno svolto ruoli molto più complessi e forse anche più rischiosi dei loro coetanei maschi sia come combattenti che come informatrici, corrieri, medici e schiave. Le esperienze delle bambine soldato sono molto diverse da quelle dei maschi. Nel corso di conflitti le bambine sono oggetto di rapimenti con lo scopo di costringerle a combattere o a diventare partner sessuali.
” Nell’ultimo decennio le bambine sono state rapite e costrette a combattere in almeno 20 paesi tra cui l’Angola, il Burundi, la Liberia, il Mozambico, il Ruanda la Sierra Leone e l’Uganda” (Unicef 2004,p.42).
L’arruolamento delle bambine non è comunque volontario ma è molto spesso dettato da esigenze di sopravvivenza: per molte prendere le armi significa evitare il rischio di essere violentate o uccise, potersi nutrire oltre che non doversi trovare sole davanti alle aggressioni. La condizione sociale delle ragazze le espone maggiormente a divenire vittima di comportamenti aggressivi quali lo stupro che comporta spesso il contagio di malattie sessualmente trasmissibili. Si è stimato, in Sierra Leone, che tali malattie colpiscono le donne che sopravvivono ad uno stupro nella misura del 70-90% .
Al termine dei conflitti ci si dimentica di loro, mancano forme di intervento e di reintegrazione. Sono state sradicate dalla loro cultura, hanno smarrito il senso della propria identità, hanno perso la loro infanzia e questo vuoto è stato colmato da ricordi di violenza e paura. Nella loro comunità di appartenenza spesso non trovano l’assistenza necessaria e cercano da sole di superare i propri problemi fisici e psicologici. Il numero delle bambine soldato è stato per lungo tempo sottovalutato, come si è detto, solo da pochi anni è stato dato rilievo a questo fenomeno e ciò ha impedito che si attuassero programmi mirati di aiuto e di sostegno in campo internazionale.
In conclusione, nel panorama mondiale attuale esiste una disparità di riconoscimento dei diritti umani tra il nord ed il sud e tra l’occidente e l’oriente del nostro pianeta. Se poi dal tema generale dei diritti di tutta l’umanità spostiamo l’analisi ad una categoria di persone, più ristretta, ma non per questo meno importante, quale è quella dei bambini, ci rendiamo conto di quanto essi non siano rispettati e tutelati nei propri diritti. Tra i tanti, il diritto all’eguaglianza, che attraversa trasversalmente tutti i diritti, è stato qui trattato in relazione alla condizione delle bambine in Africa.
prof. Paolo Palmeri, dr.ssa Annamaria Picarelli
Dipartimento di Sociologia e Comunicazione
Università La Sapienza – Roma
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