L’evoluzione del lavoro penitenziario dal 1975 al 2015

È ricorso quest’estate il quarantennale dell’entrata in vigore della legge di riforma dell’ordinamento carcerario.

Ottavio Casarano

ImmagineMi è stato chiesto di intervenire sull’evoluzione del lavoro penitenziario in questi 40 anni di vita dell’ordinamento penitenziario. Ricordo che in luglio (la Legge n. 354 è del 26 luglio 1975) è ricorso questo anniversario, 40 anni dalla entrata in vigore della legge di riforma dell’ordinamento penitenziario.
Di questi 40 anni io sono stato testimone diretto solo degli ultimi 18, essendo entrato nell’Amministrazione nel 1997. Tuttavia, lavorando in diverse realtà territoriali, al Nord, al Centro ed al Sud Italia, ho potuto sentire de relato, dai vecchi operatori da me interrogati per curiosità professionale, come andavano le cose nel periodo anteriore. Quindi, pur non essendo stato testimone diretto di tutto il periodo, attraverso queste testimonianze posso, alla fine, coprirne una buona parte.
La legge si inquadra in quella legislazione molto avanzata, riformatrice, post-sessantottina, che investì altre istituzioni c.d. “totali”. Ricordo, ad esempio, la legge del ’78 sulla chiusura dei manicomi, di poco successiva. È una legislazione molto avanzata, oggetto, all’estero, anche di studio. A mio avviso, presenta caratteri di programmaticità e non di diretta vigenza, necessitando di attuazione in molti punti. In questo, somiglia molto alla menzionata Basaglia: alcuni nodi problematici restano, a tutt’oggi, irrisolti.
Per la mia esperienza personale, posso affermare di avere la sensazione, per quanto concerne il lavoro penitenziario, che esso si sia sviluppato nel territorio a macchia di leopardo, e non necessariamente di più al Nord e per niente al Sud. Vorrei, anzi, in questa occasione, sgombrare il campo dai luoghi comuni in cui puntualmente ci si imbatte anche in questo settore. A Trani, ad esempio, dove ho prestato servizio anni fa, ricordo la realtà del tarallificio presente al maschile (lì i due istituti, maschile e femminile, sono distinti e lontani, diversamente da Trieste. Il primo è una delle carceri speciali del tempo del Generale Dalla Chiesa, sito in periferia, vicino alla strada statale. Il femminile è tuttora ospitato in un convento sito in pieno centro, adiacente all’antica e bella “villa” – giardino pubblico, nel Meridione – affacciata sul mare, con l’attuale perdurante presenza delle suore, di cui siamo ospiti) e la sartoria/ fabbrica di borse, presso il femminile. La Regione Puglia era molto presente e dimostrava particolare attenzione al problema. Si possono trovare, pertanto, realtà in cui si sviluppa un percorso di produzione manifatturiera anche nei territori nei quali, comunemente ed erroneamente, si pensa sia assente. Viceversa, possono esserci forti carenze in zone a pur elevato tasso di industrializzazione. Credo dipenda anche dal tema degli spazi della pena. Dal punto di vista edilizio, infatti, in Italia abbiamo carceri ubicate in corpi di fabbrica tra i più disparati, alcuni di molti secoli, chiaramente non progettati originariamente per accogliere al loro interno spazi deputati alle lavorazioni, come, invece, gli istituti di nuova costruzione. Esiste, poi, un fattore, al quale accennerò in seguito, che, al di là del territorio, del contesto e dello spazio della pena, può influenzare la presenza di lavorazioni.
In tutti gli spazi deputati non manca mai il lavoro c.d. “domestico”, i posti di lavoro adibiti a pulizie, cucine, manutenzione del fabbricato, esigenze interne che sussistono e sono soddisfatte dappertutto con il ricorso alla manodopera dei detenuti. L’analisi investe, invece, le lavorazioni da rivolgere verso l’esterno, finalizzate a produrre beni o servizi da collocare all’esterno.
In un recente incontro, l’evento finale del progetto “Reli”, curato dal Dipartimento delle dipendenze di Trieste, pensato per venire incontro alle esigenze delle persone coinvolte nelle dipendenze, che ha dato lavoro a Trieste anche a detenuti gravati da questo problema, ho parlato di lavoro “responsabilizzante”, in contrapposizione ideale a quello ripetitivo tradizionale, che riproduce il meccanicismo trattamentale così emblematicamente raffigurato ne La Ronda di Van Gogh.
Sicuramente, ogni tipo di lavoro, anche quello domestico di cui sopra, favorisce un percorso risocializzante con lo sviluppo dell’attitudine al lavoro, al rispetto dei tempi e delle regole. Ritengo, però, che il lavoro più adatto a favorire questa operazione (si parla di rieducazione anche se, personalmente, rimango scettico sull’idea di rieducare un adulto. Sarei più propenso a parlare di processo di cambiamento per promuovere l’attitudine al lavoro e modificare le scelte di vita, un processo, appunto, di responsabilizzazione) non sia necessariamente quello meccanicistico, ma quello creativo, rivolto, cioè, alla produzione di qualcosa che trovi un riscontro positivo all’esterno, un prodotto di cui poter dire “l’ho fatto io”, che si riesca a collocare all’esterno. Ad esempio, come quello realizzato nell’altra realtà nella quale mi calo contestualmente a Trieste – il carcere di Padova: un panettone, l’aiuto a raccogliere una prenotazione di visita specialistica, la raccolta di una rassegna stampa tematica, lo sviluppo e la divulgazione di un pensiero.
Per favorire, insomma, questo processo, al di là delle lavorazioni domestiche, dovrebbe essere promosso organicamente, e non a macchia di leopardo, in tutto il territorio, un progetto di produzione analogo. Sono, però, consapevole dell’esistenza di alcuni fattori d’ostacolo a che ciò avvenga.
Il lavoro penitenziario non ha avuto sempre la stessa valenza. Noi stiamo parlando del lavoro visto in chiave di promozione della persona, ma non è stata sempre questa la sua funzione.
Andando indietro nel tempo – mi scuso, il mio discorso dovrebbe essere circoscritto a questi 40 anni, ma è necessario compiere un passo indietro – vediamo che, nella pena detentiva, relativamente recente, post-illuministica (il concetto di ancorare, commisurare la durata del tempo in cui uno è ristretto alla gravità del reato che ha commesso ha sostituito le pene corporali e la pena capitale solo da pochi secoli) ci sono state anche involuzioni, da un polo di promozione della persona ad un polo di negazione, dalla visione della persona come fine alla sua considerazione come mezzo.
Agli albori della pena troviamo il meccanicismo, il lavoro della Rasphuis olandese, di ispirazione protestante-luterana, in cui l’attività veniva posta al centro della vicenda restrittiva. Il lavoro era continuo, sempre uguale, spersonalizzante. Veniva anche previsto (leggo dalla relativa voce da Wikipedia), per chi si rifiutava, che “i ribelli venivano rinchiusi in celle in cui veniva pompata acqua; se voleva salvarsi, il recluso doveva a sua volta pompare acqua all’esterno. Questa era considerata una punizione esemplare poiché obbligava il punito a lavorare per salvarsi”.
Siffatto rimedio oggi risulterebbe impensabile. Per quanto vi sia un dibattito sull’obbligatorietà del lavoro, almeno per i detenuti definitivi, le prestazioni di fare nel nostro ordinamento sono incoercibili – possono confermarlo i magistrati – ed il rifiuto di lavorare viene valutato solo nel quadro complessivo dell’osservazione. Eppure, il lavoro è stato usato in termini non solo di obbligatorietà, ma anche quale strumento di negazione e di annientamento della persona persino in tempi relativamente recenti.
A questo proposito, ricordo la testimonianza di uno scrittore triestino di lingua slovena, Boris Pahor, già ospite di questo istituto per motivi politici, poi deportato in Germania, che scrive: “Nessuno dei Triangoli rossi è rimasto ucciso nelle camere a gas, come avvenne per gli ebrei, ma venivamo consumati come cartucce, sfiancati di lavoro, fame e malattie in un percorso più largo che conduceva comunque al forno”.
Ecco, quindi, un esempio eclatante di involuzione della funzione del lavoro, sopravvenuta rispetto a quella illuministica, quasi a ricordarci che la storia procede non finalisticamente, seguendo un continuum di progresso, ma, purtroppo, a cerchi, ad eterni ritorni. Ebbene, la legge di riforma del ’75, anche con le successive modifiche (tra tutte, ricordiamo la Gozzini), proprio perché figlia di quel moto normativo globale della stagione riformatrice post-contestazione che abbiamo ricordato, ha predisposto un impianto normativo, a nostro avviso, in vari punti di carattere programmatico. Ha avuto il merito di cogliere la denuncia di quel contesto storico e di porre l’attenzione sullo sfruttamento del lavoratore nel lavoro penitenziario, ma ha avuto anche, al banco di prova della verifica dell’effettività normativa, il demerito di aver fatto grandemente scemare, se non annullare, l’interesse degli imprenditori per il lavoro penitenziario.
Si è, infatti, registrato innegabilmente un forte decremento occupazionale: l’equiparazione, meglio, l’agganciamento al salario esterno con la previsione normativa del riferimento al parametro retributivo dei contratti collettivi (malgrado, in seguito, le tabelle ministeriali non siano state aggiornate alle successive contrattazioni) ha, di fatto, prodotto la fuga delle imprese dalle carceri, tanto da farci ritenere calzante, in questo caso, il richiamo all’asserto di Terenzio, per cui ius summum saepe summa est malitia, ed alla considerazione che, se in un tempo, gli anni ’70, fortemente stimolato nella fucina di idee nuove, assumeva un senso stigmatizzare il trattamento deteriore riconnesso al lavoro penitenziario, in un tempo di smantellamento del welfare e di profonda crisi, invece, contestualizzando pragmaticamente il discorso allo stato attuale, risulta anacronistico e disfunzionale continuare a seguire la via 1 B. Pahor, “Figlio di nessuno” (Rizzoli, Milano, 2012, p. 76) “politicamente corretta” della piena equiparazione del lavoro penitenziario al lavoro libero finora tendenzialmente imboccata dal legislatore. Di fronte ai risultati fallimentari, questo ha cercato (a nostro avviso invano) di porre rimedi, correzioni di tiro, normando su altri settori (vedi legge Smuraglia e le operazioni di fiscalizzazione degli oneri sociali) al fine di fermare l’emorragia e provocare un’inversione di tendenza “a principio inalterato”.
Di recente, si sono viste trasmissioni televisive su questa situazione di stallo, in realtà, in qualche misura capziose, mistificatorie. Indicavano, portandole ad esempio, felici realtà estere o nazionali che, da operatori penitenziari, sappiamo essere delle volute eccezioni, realtà sulle quali i diversi dicasteri nazionali indirizzano maggiori risorse o sforzi per garantirsi un “fiore all’occhiello”, il cappotto buono nel proprio baule, per il resto, più o meno sfornito. Ravviso, nell’esperienza patavina, ad esempio, una declinazione del concetto di lavoro responsabilizzante che si colloca a pieno titolo nel polo del lavoro teleologicamente orientato alla promozione della persona.
Che sia rivolto alla fornitura di un servizio (call center, cucina detenuti) o alla preparazione di un prodotto (pasticceria), qui il lavoro trova riconoscimento nel ruolo sociale dell’intervento (servizio reso al CUP ospedaliero, un anello della machinery della sanità pubblica, e la percezione del lavoratore di farne parte; idem per l’addetto alla sanificazione degli ambienti sanitari finanziato da Reli a Trieste) o nella consapevolezza di aver contribuito alla manifattura di un prodotto che trova collocazione nel mercato (biciclette, dolci, riviste che vanno a finire nelle biblioteche pubbliche). Guardando ai fattori di facilitazione, il modello Giotto ha funzionato, al di là del contesto economico in cui si inserisce, grazie a due fattori a mio avviso ineludibili: gli spazi del lavoro ed il management, sorretto da un orientamento al risultato della direzione. Questi fattori devono necessariamente coesistere: se è vero che i capannoni industriali a Padova erano già presenti, è pur vero che erano inattivi, meri depositi, e che solo con il precostituirsi del management sorretto dalla direzione quegli spazi si sono riempiti di contenuti, attività, commesse dall’esterno.
Se, allora, nella legge che ripercorriamo succintamente oggi in vista del quarantennale, è dato rilevare una lacuna significativa, a mio avviso essa è da individuare proprio nella mancata previsione ordinamentale di figure di supporto e supervisione dei processi lavorativi di formazione economica.
A fronte di una struttura decisionale ancora oggi sostanzialmente gerarchica e piramidale, è impensabile che, di quei processi, nei momenti genetici, di gestione del rapporto di lavoro e di eventuale risoluzione o riconversione, possa farsi carico sistematicamente il dirigente penitenziario, dotato, per lo più, di una formazione giuridica e non economica, e già posto a coordinamento di aree di per sé variegate e complesse (sicurezza, segreteria, amministrazione e contabilità, raccordo con l’area sanitaria ormai esternalizzata al S.S.N.). In difetto di siffatta previsione, tutto è lasciato alle circostanze favorevoli proposte alla direzione ed alla sua discrezionalità di implementarle attraverso l’eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione della lavorazione (nel caso di Padova, recepimento della proposta pervenuta dall’imprenditoria sociale esterna, adattamento dei capannoni alle esigenze prospettate, acquisizione di permessi, messa in sicurezza, ecc.).
Anche per la mancanza di questa figura, forse, assistiamo al fenomeno distributivo delle realtà di produzione disomogenee sopra evidenziato.
La suddetta mancanza è ancora più sentita, riverberandosi, inevitabilmente, sul lavoro responsabilizzante, a causa dell’assenza fisica o, meglio, della presenza part-time, in molte realtà penitenziarie, della figura del direttore, a fronte dell’assottigliamento del numero di dirigenti penitenziari e della mancanza di concorsi da circa venti anni.
Senza una figura di raccordo sul territorio che, in assenza di quello specifico management “istituzionale” di cui si è detto, svolga un’opera di costante ricerca di imprenditoria esterna da coinvolgere nelle lavorazioni, è facile che residuino spazi per il solo lavoro domestico tradizionale.
Non va, allora, sottovalutata, quale effetto strutturale e politico negativo, accanto al decremento occupazionale derivante dall’equiparazione al salario esterno con l’agganciamento ai contratti collettivi, la riduzione di commesse direttamente proporzionale alla riduzione degli spazi di interazione, sul territorio, tra direzione penitenziaria ed imprenditoria locale, causata dalla più ridotta presenza dei dirigenti, anello di congiunzione. Divengono, allora, fondamentali le figure intermedie, le aree trattamentali degli istituti, da porre in collegamento con la cooperazione sociale.
A Trieste, grazie alla consueta vicinanza e prossimità degli enti locali, è possibile l’applicazione su base convenzionale del nuovo istituto della prestazione di attività di pubblica utilità all’esterno, con il novellato art. 21 della legge. Si tratta di una delle più importanti modifiche recenti, che prevede la possibilità di mandare i detenuti all’esterno a prestare attività non remunerate, con la sola copertura assicurativa, rese alla società in chiave riparativa. Si è agito, nell’ambito del lavoro domestico, per guadagnare posti di lavoro, sostituendo le imprese esterne per le pulizie degli uffici con la manodopera dei detenuti. Si dispone di spazi, originariamente detentivi, riconvertiti per la produzione e per la formazione professionale, su cui si concentra uno sforzo di adeguamento strutturale di sicurezza e di reperimento di commesse.
Nell’introduzione ad un paper in cui viene riassunta l’esperienza della cooperativa Giotto2, Giovanni Maria Flick focalizza l’attenzione sul concetto di sussidiarietà orizzontale, sottolineando i meriti ed il ruolo delle imprese sociali nella vicenda moderna del lavoro penitenziario, che “interagiscono con l’amministrazione pubblica, coniugando imprenditorialità e socialità con esiti rilevanti”.
Alla luce delle considerazioni proposte, potrei pensare a come, in effetti, questo ruolo si estenda oggi anche, sussidiariamente, a ricercare un raccordo con l’imprenditoria esterna, e come, perciò, nell’amministrazione attiva svolta dalla direzione in difficili circostanze, la cooperazione sociale diventi risorsa ineludibile per mantenere un canale aperto per il lavoro responsabilizzante.
Concludendo, e ricordando il direttore Basaglia, santo laico che soleva ripetere un detto calabrese, “chi non ha non é”, per giustificare la primissima restituzione e dazione degli effetti personali sequestrati ai pazienti che trovò nei manicomi, la via per assicurare un “avere” ai ristretti mediante il lavoro, tale da riempire di contenuti quella parentesi, più o meno lunga, di sospensione dalla vita comune costituita dalla condanna, è quella di abbandonare, senza pregiudiziali ideologiche, il dogma dell’equiparazione retributiva, indirizzare gli sforzi strutturali alla dotazione dei luoghi della pena di spazi del lavoro (che l’Amministrazione sta cercando di percorrere) e arrestare il processo in atto di depauperamento degli organici delle figure di raccordo con l’imprenditoria, a causa dei semplicistici ed indifferenziati tagli in chiave di risparmio della spesa delle figure preposte alla facilitazione dei processi lavorativi, con la contestuale limitazione normativa della discrezionalità nell’avvio delle lavorazioni.

di Ottavio Casarano

Direttore della Casa Circondariale di Trieste

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