ISIS, una macchina mediatica

L’Isis vive delle emozioni irrazionali che riesce ad innescare. I suoi attacchi hanno fatto meno morti in Europa del numero di vittime quotidiane in incidenti stradali, ma questa diventa una valutazione superflua se le azioni vengono condotte in modo tale da innescare quanta più emotività possibile

Eugenio Dacrema

isisUna volta c’erano gli anarchici, poi i socialisti e i comunisti. C’erano le milizie armate di ispirazione maoista, trozkista, oppure qualcosa nel mezzo. C’erano le Brigate Rosse e la banda Baader-Meinhof. C’erano i gruppi neofascisti e neonazisti e le guerriglie, come quella curda o quella palestinese, che mischiavano socialismo e rivendicazioni nazionaliste.
Oggi, invece, c’è lo jihadismo. Anzi, c’è l’Isis. Oggi assistiamo a quella che Olivier Roy ha chiamato “l’islamizzazione della radicalizzazione sociale”. Per un motivo o per l’altro, nella storia la radicalizzazione sociale c’è sempre stata. Classi sociali neglette, crisi economiche endemiche, speranze nazionaliste tradite ne hanno sempre garantito la presenza nelle variegate fasi della storia umana. Di volta in volta, ha preso strade e forme diverse, a seconda del mercato ideologico in quel momento disponibile, con effetti assai diversi a seconda dei casi. C’è stato un tempo, sul finire del XVI secolo, in cui intere masse di contadini tedeschi si rivoltarono contro i padroni delle terre e i signori locali in quella che ancora oggi è ricordata come la grande rivolta dei contadini. Lo fecero sotto la bandiera di una religione nuova. Anzi; la riforma nuova di una religione antica, quella cristiana, rivisitata da un certo Martin Lutero contro l’opulenta e corrotta Chiesa cattolica del tempo. Invasero città e campagne uccidendo e massacrando coloro i quali si opponevano e rifiutavano di convertirsi al loro cristianesimo riformato. In fin dei conti, gli altri erano solo finti cristiani, eretici infedeli. Ricorda qualcosa?

Oggi, nei libri di storia studiamo le guerre protestanti come guerre di religione trascurandone i profondi risvolti sociali, così come, molto probabilmente, tra un centinaio di anni studieremo questo periodo del Medio Oriente come la guerra del takfirismo – dal verbo “kaffara”, scomunicare, la nuova versione radicale di Islam fondamentalista che si investe del diritto di dichiarare infedeli anche i Musulmani che si rifiutano di riconoscerla come unico vero Islam – contro i “moderati” e le altre minoranze religiose. La ricorderemo, in particolare, sullo sfondo del grande scontro tra Sunniti e Sciiti, l’etichetta ultimamente più in voga per spiegare gli ultimi sconvolgimenti mediorientali. Ma, forse, anche in questo caso non sapremo andare molto oltre la giusta condanna per il terrore e il sangue versato. Anche in questo caso non arriveremo ad analizzare le dinamiche sociali sommerse che hanno reso possibile tutto questo. Il fatto, per esempio, che dall’est della Siria alle province dell’Iraq occidentale di Ninive e Anbar fino a Tikrit e Falluja esista un’enorme sacca di popolazione completamente esclusa, nei rispettivi Paesi, da potere e distribuzione delle risorse. Una popolazione che, in questi anni, ha sofferto in prima linea la desertificazione dei propri campi ed il costante impoverimento nel completo disinteresse dei Governi centrali. Una popolazione, quindi, ad altissimo tasso di potenziale radicalizzazione sociale. Una radicalizzazione sociale che non è, però, presente solo in quei luoghi, ma rappresenta, anzi, un fenomeno diffuso nell’intera regione e, in forme diverse, perfino in Europa, dove anima e dà vita a partiti nazionalisti e populisti.

Nel 2011, in Medio Oriente, essa ha preso corpo nella Primavera araba che ha cambiato drammaticamente lo scacchiere politico della regione.Per comprendere come si sia passati dalle manifestazioni pacifiche alle bandiere nere bisogna compiere un passo indietro.
Occorre risalire alle dinamiche con cui le persone decidono di intraprendere un’azione collettiva sotto una certa bandiera ed a quanto i media rivestano un ruolo determinante. Dobbiamo tornare indietro agli anni ‘70, quando il sociologo statunitense Thomas Schelling introdusse nella teoria dei giochi applicata alla sociologia il concetto di “focal point”. Secondo Schelling, un focal point è un’invenzione culturale che permette agli esseri umani di coordinare le proprie azioni in assenza di altri mezzi di comunicazione.
In un esperimento passato alla storia, Schelling chiese ad un gruppo di persone di trovare il modo di incontrarsi un certo giorno nella città di New York senza avere alcun mezzo di comunicazione per decidere luogo preciso e ora. Nonostante le possibili combinazioni di ora e luogo in una città enorme come New York fossero virtualmente infinite, la maggior parte dei partecipanti si incontrò a mezzogiorno davanti alla Central Station. Abitudini, cultura e conoscenze comuni rendono la coordinazione tra gli esseri umani assai meno caotica di quello che potrebbe essere sulla carta. Con questo esperimento, Schelling introdusse l’idea che persone che attingono le informazioni in loro possesso dalle fonti culturali simili sono portate a trovare soluzioni comuni ai propri problemi. Neanche lui, però, poteva immaginare i risvolti di queste dinamiche con il processo di progressiva deculturalizzazione del locale e di avvento di una cultura globalizzata e sovrannazionale, all’epoca solo agli inizi.

Quella era un’epoca in cui il mondo veniva descritto da media e accademia come lo scontro tra il mondo comunista e il “mondo libero” democratico, tra socialismo internazionalista e Stati-Nazione democratici.
Le persone, che bene o male attingevano le proprie informazioni e la propria visione del mondo dalle stesse fonti di cultura ed informazione, erano portate ad incanalare le proprie rivendicazioni sociali secondo questo schema. Nel nome del socialismo rivoluzionario in Occidente, e nel nome della Democrazia liberale nei Paesi del blocco sovietico, portando spesso e volentieri a scontri diretti con i poteri centrali, violente repressioni e, in qualche caso, a veri e propri movimenti violenti, terroristici o di guerriglia. Nel mondo arabo (e musulmano) non era diverso.
Gli anni ‘50 e ‘60 videro le grandi istanze sociali di questa regione riversarsi nell’astro nascente del panarabismo guidato dall’Egitto di Gamal Abd al-Nasser. Un’ideologia nazionalista araba, laica e infusa di principi socialisti e autoritari si sparse sotto varie forme in Egitto, Algeria, Libia, Siria, Iraq e Yemen, ma si infranse, nel giugno del 1967, nella devastante sconfitta inflitta da Israele agli eserciti arabi durante la Guerra dei Sei Giorni.
Nasser morirà tre anni più tardi senza essere stato in grado di fermare il declino dell’ideologia di cui era stato simbolo. Il suo successore, Sadat, deciderà di allinearsi all’Occidente e firmare la pace con Israele mettendo fine ad un conflitto durato decenni. Aprirà, inoltre, agli islamisti, in particolare ai Fratelli Musulmani, violentemente repressi da Nasser, quali argine rispetto ai potenti movimenti di sinistra e nasseristi nelle università e nelle corporazioni professionali. La transizione tra un universo ideologico dominato da valori laici, socialisti e autocratici ha così inizio e vede il proprio trionfo pochi anni più tardi, quando, nel 1979, la rivoluzione islamica guidata da Khomeini rovescia la monarchia persiana filoccidentale proponendo definitivamente la religione come nuovo simbolo vincente di riscatto sociale.

Da questo momento, tutti i nuovi gruppi di opposizione, violenta o meno, che vedranno la luce dall’Algeria alla Siria passando per Tunisia, Egitto e Palestina saranno movimenti di stampo islamista. Subiranno, inoltre, un’ulteriore spinta con la reazione dell’Arabia Saudita alla nuova minaccia rappresentata dalla Repubblica Islamica iraniana alla sua egemonia sul mondo arabo-musulmano. Nei decenni successivi, le monarchie del Golfo finanzieranno una miriade di gruppi grandi e piccoli in giro per il mondo nell’intento di diffondere il loro brand di Islam politico fondato su un approccio letterale e fondamentalista (nel senso della ricerca dei “fondamenti” dell’insegnamento coranico) wahabita. Alcuni di questi gruppi, passati attraverso i conflitti – ridefiniti “Jihad” – in Afghanistan, Bosnia e Algeria, diventeranno gli embrioni della moderna al-Qaeda.
L’islamizzazione della radicalizzazione sociale aveva avuto inizio. E, coadiuvata dalla crisi di tutte le altre grandi ideologie, non si è interrotta fino ad oggi. Questa trattazione non si pone solo l’obiettivo di fornire una chiave di lettura ai fondamentali passaggi storici posti alla radice di ciò a cui assistiamo oggi in Siria, Libia e Iraq. Ha, soprattutto, l’intento di dimostrare quanto ambiente culturale e mezzi di informazione rivestano un ruolo fondamentale nel determinare lo sviluppo e le fortune di una certa ideologia, compresi i suoi risvolti violenti. L’immersione costante dei soggetti in un ambiente culturale e mediatico che descrive il mondo come esclusivamente codificabile attraverso un certo tipo di categorie, ideologie e filtri valoriali porterà inevitabilmente ad intraprendere azioni collettive (adesione ad un partito, un movimento, un’organizzazione e perfino ad un gruppo clandestino o terroristico) in accordo con quelle categorie, ideologie e filtri valoriali.

Si tratta di un processo che le organizzazioni terroristiche come al-Qaeda e, soprattutto, Isis hanno capito benissimo. La loro strategia mediatica rappresenta l’apice dell’intera ragion d’essere dell’organizzazione.
Nulla viene fatto se non per essere comunicato. Nessun attacco terroristico è pensato senza avere in mente la strategia migliore per agevolarne la spettacolarizzazione. Nessun prigioniero di qualche rilievo viene ucciso senza che la sua morte non diventi un macabro spettacolo mediatico. Infine, perfino la strategia militare è costantemente piegata alle esigenze mediatiche: l’impressione di espansione costante e invincibilità deve dominare il messaggio. Non importa se essa comporterà rischi strategici di “over-streching”, come accaduto in Iraq e Siria.
Le reclute che saprà attirare questa impressione di invincibilità ed espansione costante – prova inconfutabile che “Dio è con noi” – compenseranno i rischi assunti.

Se pensassimo, infatti, ad un’organizzazione come l’Isis come ad una fabbrica mediatica prima ancora che un’organizzazione territoriale e militare, riusciremmo, forse, a colpire più profondamente le sue fondamenta.
L’Isis vive delle emozioni irrazionali che riesce ad innescare. Vive del fatto che le persone non vedano altra via per incanalare le proprie istanze antisistemiche. Il fatto, per esempio, che i suoi attacchi abbiano fatto meno morti in Europa del numero di vittime quotidiane in incidenti stradali diventa una valutazione superflua, se questi attacchi vengono condotti in modo tale da innescare quanta più emotività possibile.
Il fatto che il regime di Assad abbia massacrato solo nelle proprie carceri molti più prigionieri e oppositori di quanto abbia fatto l’Isis in Siria e in Iraq non conta di fronte ad una decapitazione spettacolare trasmessa in mondovisione. I responsabili della comunicazione dell’Isis questo lo sanno molto bene e sfruttano al massimo la voglia di spettacolarizzazione (e di click) che caratterizza sempre di più il mondo dei media in profonda crisi economica. Ma è qui che si trova la chiave di volta della lotta all’Isis e, ancor più in generale, al terrorismo. Nel trovare il modo di bloccarne la produzione di emotività e irrazionalità costruita per creare un altro modo di intendere l’Islam e la Democrazia “focal point” alternativi, come i grandi passi in avanti, quasi miracolosi, della Tunisia di oggi, ma anche del Marocco, e la lotta pacifica, ma ancora presente, nonostante tutto, della società civile siriana, egiziana, libanese o giordana. Quando sapremo trovare il modo di raccontare, spiegare ed esaltare allo stesso modo la svolta democratica e progressista degli Islamisti tunisini di Ennahdha o le lotte della società civile di comunità come quella di Kafr Anbel in Siria avremo sconfitto il terrorismo.
Senza, nemmeno, un bombardamento.

Eugenio Dacrema, dottorando all’Università di Trento. Visiting scholar presso l’American University of Beirut (AUB). Ricercatore associato dell’ISPI di Milano e contributor per diverse testate giornalistiche come Corriere della Sera, Il Foglio e Linkiesta

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