Industria 4.0 e protezionismo: qual è la ricetta della politica?

Le forze che governeranno il mondo sono finanziarie, migratorie e tecnologiche. In quest’ultimo campo numerose innovazioni stanno trasformando i settori energetici e industriali, è quella che chiamiamo e chiameremo industria 4.0. A breve la vita dei lavoratori e, quindi, di tutti noi non sarà più la stessa. Parliamo della rivoluzione digitale: stampa 3D, robotica avanzata, intelligenza artificiale, gestione dei meta e big data, algoritmi di navigazione, veicoli autonomi, per arrivare alle incredibili capacità di calcolo dei prossimi computer quantistici.

Per meglio comprendere quello che sta succedendo basta osservare le realizzazioni concrete delle “visioni” di Elon Musk già in produzione: dall’automobile elettrica che viaggia da sola all’industria aerospaziale di Space X con i razzi che rientrano da soli a terra, passando per la “casa solare” completamente autonoma.

Ma non solo. È ancora calda la polemica romana che ha visto contrapposti i tassisti e Uber. Uber è un’azienda con sede a San Francisco che fornisce un servizio di trasporto privato attraverso un’applicazione software mobile (app) che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti. Una concorrenza inaccettabile per i vecchi sistemi di trasporto automobilistico. Ma con Uber, Amazon, Airnb, Alibaba ecc. l’uberizzazione del commercio è già in corso. Certo il rischio attuale è quello della nascita di monopoli digitali che distruggono i preesistenti, oppure che queste company internazionali non seguano le leggi locali. Ma negarlo non è profiquo, bisogna farsene una ragione e combattere con le stesse armi. L’arco e le frecce non riuscirono ad avere la supremazie sulle armi da fuoco.

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L’economista francese Guy Sorman sostiene che le proteste contro l’app americana siano simili a quelle dei luddisti d’inizio 800 che sabotavano le prime fabbriche per bloccare la rivoluzione indistriale. Ma quel mutamento trasformava gli artigiani in macchine al servizio delle aziende capitalistiche, la nuova rivoluzione digitale cambierà il nostro rapporto con il lavoro e permetterà nuove posizioni lavorative dell’uomo.

Questo sarà il nostro futuro e con questo, politica, cultura e commercio dovranno confrontarsi. L’industria 4.0 vive della connessione a banda larga con hub, fornitori e clienti che compongono la filiera industriale. Tutto può essere delocalizzato. Basti pensare al nuovo datacenter di Facebook aperto a Lulea, nel Nord della Svezia per ridurre le spese di raffreddamento dei server. Il mercato del lavoro e della formazione professionale sta per essere stravolto.

Ma non solo, la manodopera robotica soppianterà il lavoro umano, anche quello nei paesi in via di sviluppo dove le multinazionali hanno delocalizzato per ridurre i costi. Ma questo non vorrà dire necessariamente aumentare gli indici di disoccupazione. Come detto, nasceranno nuove opportunità, nuove figure e posizioni lavorative. Per fare un esempio, tornando a Uber, in Gran Bretagna questa ha scelto una startup italiana per offrire ai propri autisti inglesi una pensione integrativa e servizi di consulenza finanziaria per la gestione del risparmio.

Benchè Bill Gates sia dell’idea di tassare le attività robotiche per sopperire alla perdita dei posti di lavoro e quindi delle tasse relative ai salari del dipendente umano, Milena Gabanelli è di altro parere. “L’intelligenza artificiale non eliminerà completamente i diversi tipi di lavoro, ma permetterà ai dipendenti di svolgerli in modo più efficiente, portando a un numero sempre minore di personale necessario”.

Ma di tutta questa rivoluzione dell’industria 4.0 cosa sa la politica e i cittadini? Quasi nulla. Anzi le manipolazioni dei sistemi populisti sono completamente cieche dell’evoluzione e dei risultati di un simile progresso.

I partiti nazionalisti o sovranisti – che in questo momento vedono un periodo di crescita del consenso popolare più o meno in tutte le nazioni occidentali – puntano tutto sulla promessa di riportare il lavoro ai propri elettori. I “lungimiranti” leader populisti come Salvini, Le Pen e Trump promettono di rimettere in sesto l’economia nazionale, sfidando la globalizzazione. Sono convinti di ripristinare la produzione locale, riportare nel proprio Paese la produzione che si è spostata in Messico e Asia obbligando con dazi a produrre in casa. Ma non capiscono che la manodopera a casa si ridurrà progressivamente perchè realizzata dalle macchine o perchè totalmente diversa da quella conosciuta.

Il protezionismo voluto da Trump oltre ad essere un metodo più volte sconfessato dalla storia, sarà inefficente a causa del vicinissimo futuro. Nel ‘900 i proebizionisti diventarono famosi per aver creato il contrabbando e la produzione clandestina di alcool, ma soprattutto la crisi economica del 1929. Ma esistono altri esempi ed altri paesi che hanno conosciuto il default finanziario proprio a causa di meccanismi di imposizione sulla produzione locale. Negli anni’90 in Argentina, ad esempio, vennero emanate pesanti tasse sulle importazioni, in alcuni case impedendole del tutto. Questo stimolò sì la realizzazione di stabilimenti locali, che però producevano prodotti diventati nel frattempo vecchi ed estremamente cari e quindi poco competititvi. Nacque, quindi, anche qui il mercato illegale e di contrabbando che portò al default l’intero paese. E si potrebbero citare moltissimi altri esempi in cui si è tentato inultilmente di bloccare il libero scambio.

Questa esperienza ci deve far diffidare delle ricette populiste. Certamente ci sono sostanziali differenze fra la Kirchner, il voto per la Brexit e Donald Trump, e ancora diversi sono il Front National di Marine LePen, Salvini e il Movimento 5 Stelle, ma gli esiti elettorali del 2016 e il loro possibile proseguio nel 2017 ci ricordano quanto sia seducente l’idea populista e quindi protezionista e quanto l’essere umano sia istintivamente timoroso dei cambiamenti e quindi incline a seguire i conservatori, proprio nei periodi di incertezza.

Può non piacere, ma visto che il progresso non può essere fermato, deve essere gestito, la realtà è questa. E per far questo la politica ha un ruolo determinante e non può rifiutare di comprendere l’evoluzione della società. L’industria 4.0 dovrebbe essere il punto di partenza per qualsiasi programma politico che voglia fare del lavoro il suo perno. Sia per tutelare i lavoratori attuali senza illuderli, sia per aprire strade corrette ai lavoratori futuri senza prevaricazione. In ogni caso l’industria 4.0 può far progredire il sistema produttivo, l’economia e l’occupazione di una nazione. Ma deve essere ben capita, conosciuta e guidata da una classe politica pronta al cambiamento.

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