Dall’età dell’oro all’età della pietra: perché l’Europa si è fermata?

Attraverso una comparazione fra la situazione attuale e la cosiddetta Età Dorata dell’integrazione europea, cerchiamo di capire quali fattori essenziali manchino per rilanciare il progetto europeo.

di Piero Lorenzini

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Durante la seconda metà degli anni ’80 il processo di integrazione europea si intensificò. In effetti, fu possibile giungere a risultati importanti in termini sia di integrazione economica sia di convergenza politica. Un passaggio fondamentale fu la firma, nel 1986, di uno storico trattato, l’Atto Unico Europeo, da parte dei rappresentanti di tutti gli Stati Membri. Questo accordo ridisegnò le fondamenta di quella che sarebbe, di lì a poco, divenuta l’Unione Europea: in particolare, l’integrazione economica venne rinforzata attraverso l’eliminazione di barriere che ancora esistevano, ovvero ostacoli finanziari, fiscali e fisici. Inoltre, di lì innanzi, il Consiglio dei Ministri dell’UE potè procedere con votazioni a maggioranza, e non all’unanimità, in ulteriori ambiti rispetto al passato. Questa “Età dorata” dell’integrazione Europea raggiunse il suo apice nel 1992, quando il trattato di Maastricht fu firmato: i tre pilastri dell’Unione Europea vennero istituiti (politiche economica, estera e giudiziaria comuni) e fu intrapreso il percorso verso l’adozione dell’Euro. Oggigiorno, l’UE deve confrontarsi con sfide di varia natura che sembrano impedirne un ulteriore sviluppo. Il Mercato Unico non è ancora completamente integrato, specialmente considerando aspetti finanziari, digitali e di settore terziario. In aggiunta, l’integrazione politica è in evidente fase di stallo. Vari esperti nel settore considerano essenziale creare un’effettiva unione bancaria e integrare le misure fiscali dei vari Stati Membri: solo attraverso queste misure l’Euro può essere sostenibile. Tuttavia, sembrerebbe non sussistere alcun segno di questi fondamentali cambiamenti nel prossimo futuro. Risulta, quindi, necessario, per comparare l’odierna situazione con quella della seconda metà degli anni ’80, sviluppare tre livelli di analisi: il livello domestico (ovvero le ideologie ed i programmi dei partiti al governo nei principali Paesi dell’UE), il livello dei leader politici ed il livello internazionale.


Anzitutto, nel periodo fra il 1985 e il 1992, i governi dei Paesi leader erano composti da partiti localizzati al centro; essi erano pro-integrazione europea e con una visione di politica economica per lo più condivisa (relativamente liberista). Il Partito Socialista Francese abbandonò il radicalismo tipico dei partiti di sinistra del tempo ed iniziò ad aprirsi a una posizione in favore della liberalizzazione del mercato; allo stesso tempo i Conservatori britannici, guidati da Margaret Thatcher, spingevano per l’innalzamento del livello di commercio all’interno dell’Unione; infine, la coalizione di governo tedesca, composta da Cristiano-Democratici e Liberali, aveva i medesimi intenti circa la liberalizzazione economica del continente. Probabilmente, l’avere una visione di politica economica condivisa contribuì alla riforma dell’Unione Europea. D’altro canto, oggi, i partiti alla guida dei paesi cardine dell’Unione Europea sembrano non condividere i medesimi progetti ed intenti rispetto alla politica economica da intraprendere. Un esempio di ciò può essere desunto dall’atteggiamento negativo della coalizione di governo italiana rispetto ai trattati di libero commercio, considerati, invece, importanti dai partiti di governo tedeschi e francesi. Inoltre, vi è una mancanza di idee condivise anche considerando la riforma dell’Eurozona: mentre i Cristiano Democratici tedeschi sono riluttanti nell’accettare una unione fiscale fra i Paesi dell’UE, questa misura è fortemente desiderata dal Presidente francese Macron e dal suo partito En Marche. Queste difficoltà che sorgono nel trovare un percorso condiviso di politica economica potrebbero essere dovute al fatto che oggi l’opinione pubblica vede in maniera più saliente il ruolo dell’UE nella propria vita; di conseguenza, gli elettori impongono vincoli ai partiti, i quali devono agire in ottemperanza al volere della propria base. Negli ’80, d’altro canto, le élite potevano guidare il processo di integrazione europea con poche implicazioni per i propri risultati elettorali; vi era infatti un cosiddetto “consenso permissivo” che la popolazione garantiva ai propri rappresentanti circa le questioni europee.


Inoltre, gli attuali leader europei, ovvero il Presidente francese Macron, la Cancelliera tedesca Merkel e il Presidente della Commissione Juncker, sembrano non avere le medesime capacità di leadership dei propri predecessori degli anni ’80. In particolare, nella Commissione: Jacques Delors (Presidente) e Lord Cockfield (Commissario per il Mercato Interno); e, come capi di governo: Mitterand, Kohl e Margaret Thatcher. In effetti, essi seguivano il cosiddetto metodo  Monnet, efficacemente riassunto da Mario Draghi come: “…un’attenzione all’efficacia, un’insistenza alla sussidiarietà, un senso di direzione e un impegno per la democrazia”. Questo metodo consiste nell’avere in mente l’obiettivo finale, ovvero l’integrazione politica, ma cercare di raggiungerlo attraverso piccoli e fattibili passi. Un esempio ne fu il processo che condusse alla creazione del Mercato Unico, che poi permise un rafforzamento dell’integrazione politica. Cockfield e Delors, in effetti, definirono un piano dettagliato e pragmatico per il raggiungimento di ogni clausola inserita nell’Atto Unico Europeo. Avevano un “senso di direzione”; tuttavia, invece che procedere promettendo riforme titaniche, si focalizzarono su misure certamente ambiziose, ma, allo stesso tempo, realistiche. Al contrario, oggigiorno, i leader europei preferiscono rilasciare dichiarazioni su grandi balzi in avanti di maoista memoria, che, tuttavia, risultano difficilmente adottabili senza la creazione di solide basi. Ad esempio, nel famoso discorso di Macron alla Sorbonne del settembre 2017, nel quale egli asseriva che una profonda trasformazione fosse necessaria, non si suggeriva alcun passo pragmatico e fattibile in questa direzione. In aggiunta, la stessa Cancelliera tedesca Angela Merkel rilascia interviste sulla necessità di riformare l’Unione; sembrava, infatti, supportare l’idea di un’Europa a varie velocità, ma il dibattito è rimasto sterile a causa della sua vaghezza. Eppure, una lezione dagli anni ’80 per i leader europei di oggi è che il pragmatismo dovrebbe essere il fulcro dell’agenda dell’Unione: Ripensare all’integrazione in maniera più realistica aiuterebbe a raggiungere più velocemente i risultati sperati. Ad ogni modo, vi è anche oggi un leader che adotta, in una certa misura, il metodo Monnet: il Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. In effetti, per rilanciare il ruolo della BCE nel mezzo della crisi dell’Eurozona del 2011, egli non propose riforme radicali; preferì affidarsi ad un’interpretazione più ampia delle regole esistenti. Di conseguenza, fu possibile l’introduzione del Quantitative Easing, ovvero l’acquisto massiccio di titoli dei singoli Paesi membri dell’UE da parte della BCE, una misura che creò le basi per un’ulteriore integrazione in ambito di politica economica. Dunque, anche se Draghi non è definibile un leader politico, il suo contributo può essere considerato l’esemplificazione di come affrontare questioni di vitale importanza in maniera appropriata.

Infine, il contesto politico internazionale odierno è indubbiamente più complesso di quello degli anni ’80. Da un lato, durante l’età dorata dell’integrazione europea, il bipolarismo nell’arena internazionale contribuì al rafforzamento del progetto europeo. Fu, infatti, la Guerra Fredda uno dei motivi che spinse al mantenimento di un solido blocco comune europeo che potesse fronteggiare l’URSS. Inoltre, la riunificazione della Germania rese possibile il consenso tedesco all’unione monetaria. Diversamente, oggi, il multipolarismo, come ci suggerisce la teoria delle Relazioni Internazionali, è più incline a creare divisioni entro le alleanze. In effetti, l’isolazionismo degli Stati Uniti sta portando alcuni Stati dell’UE a porre in discussione l’Alleanza Atlantica e a costituire relazioni con altri attori internazionali, come Russia e Cina, aumentando le divisioni fra Stati Europei. In aggiunta, l’UE deve fronteggiare crisi globali, originatesi, in primo luogo, dalle conseguenze delle Primavere Arabe del 2011, ovvero terrorismo e immigrazione sproporzionata. Ciò sta mettendo in discussione la libertà di movimento all’interno dell’UE, uno dei cardini dell’Unione stessa. La mancanza di coordinazione nell’affrontare queste problematiche sta inducendo un deficit di credibilità delle Istituzioni Europee; di conseguenza, i cittadini Europei si rivolgono sempre più spesso a rappresentanti politici “euroscettici”.

In conclusione, le differenze fra i due periodi in ciascuno dei tre livelli di analisi sono evidenti e sembrano essere alla base delle difficoltà che l’UE si trova ad affrontare oggigiorno. Alcune delle questioni presentate, quali il contesto internazionale mutato ed un elettorato più attento alle questioni riguardanti l’UE, sono esogene rispetto al raggio d’azione dei leader politici e, dunque, difficili da gestire. Mentre altre possono essere affrontate imparando dal passato, per esempio adottando il metodo Monnet. Il processo di integrazione, specialmente circa la riforma dell’Eurozona ed il completamento del Mercato Unico, sembra essere in uno stallo perpetuo ed è ancora prematuro azzardare previsioni di lungo periodo per l’Unione Europea.






Piero Lorenzini

Mi sono laureato in Affari Internazionali presso l’Università di Bologna e presso la Johns Hopkins University, con focus in Affari Europei ed Economia Internazionale. Appassionato di politica, economia, giornalismo e di sport; nel tempo libero sono infatti un ciclista agonista che compete a livello nazionale ed internazionale. 

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