UN DILEMMA DIGITALE DIVIDE GLI INTERNAUTI: LIBERTÀ DI DIFFUSIONE O TUTELA DEL COPYRIGHT?

CONFLITTO IRRISOLTO TRA LA NECESSITÀ DI NON LIMITARE LA DIFFUSIONE DEI CONTENUTI DIGITALI E QUELLA DI TUTELARE IN MODO ADEGUATO LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE. QUALE MODELLO DI SVILUPPO RISULTERÀ VINCENTE? ESISTE UN MODO PER CONTEMPERARE LE DUE ESIGENZE?

Chi di noi da piccolo non ha provato ad inventare un proprio alfabeto segreto, magari da condividere solo con il proprio amico del cuore? L’evoluzione umana si basa sulla conoscenza e sulla sua condivisione. Intere civiltà si sono estinte ed il loro bagaglio di conoscenze, se non correttamente documentato e decodificato, rimane lettera morta, inaccessibile ai posteri e, di fatto, inutile per il progresso dell’umanità.

Creare un insieme di segni uniformi che permettano di rappresentare qualsiasi parola di una lingua è il primo, fondamentale passo per documentare scoperte e invenzioni ed anche emozioni, racconti, storie. In una parola, per comunicare al di là dell’oralità e della compresenza fisica.

Non sempre riflettiamo su quale straordinaria invenzione sia l’alfabeto e come l’infinita combinazione dei segni grafici comuni serva a dar voce alle lingue più diverse, sempre su una base di conoscibilità condivisa e trasmissibile tra le generazioni. Qualcosa di simile avviene anche in informatica: ogni documento informatico viene identificato attraverso il suo “nome file” – liberamente attribuitogli dall’utente – e con l’estensione, le 3 o 4 lettere che si trovano dopo il punto e che indicano il formato in cui esso è stato creato.

Un formato di file è la convenzione utilizzata per leggere, scrivere e interpretare i suoi contenuti, ovvero per “conoscere” il documento in esso racchiuso. I file, infatti, non sono altro che insiemi ordina
ti di byte, cioè di 0 e 1. Per poter associare al loro contenuto le cose più diverse si usano convenzioni che legano i byte ad un certo significato. Ad esempio, un formato di file per immagini può stabilire che i primi due byte rappresentano l’altezza e la larghezza dell’immagine oppure determinati colori, il tutto secondo uno schema preordinato.

Il formato del documento informatico è, quindi, particolarmente importante poiché svolge una funzione simile a quella dell’alfabeto per la scrittura tradizionale. Consente la creazione, la lettura o, più in generale, l’interpretazione del documento stesso. Deve essere leggibile nel tempo, altrimenti tutto ciò che rappresenta (immagini, testi, suoni, ecc.) non sarà più consultabile a distanza di anni, diventerà inaccessibile, come fosse scritto in un alfabeto segreto o, semplicemente, irrimediabilmente perduto. Diventa, dunque, essenziale che le sue specifiche tecniche siano standardizzate e documentate (i c.d. formati “aperti”), in modo tale che il documento sia riproducibile nel tempo da chiunque.

Scrivere un testo, scattare una fotografia, girare un filmato in un formato “proprietario” può significare, di fatto, perderne l’accessibilità come contenuto, se il proprietario del formato decide che quell’”alfabeto” non è più utilizzabile dall’autore. “Aperto”, in informatica, è, dunque, un aggettivo importantissimo: indica che chiunque può utilizzare quel formato per pubblicare un contenuto o inventare un’applicazione senza richiedere il permesso e che le tecnologie utilizzate sono trasparenti e comprensibili. Ma, soprattutto, significa che nessuno potrà mai vietare la conoscenza di ciò che è stato creato con quegli strumenti. Aperto è, quindi, sinonimo di pubblico, ma in un’accezione alta: è della comunità intesa come totalità sociale.

Internet nasce come sistema aperto. I suoi protocolli di comunicazione, il linguaggio (HTML) in cui sono scritte le pagine web, sono aperti. Chiunque può utilizzarli gratuitamente per imparare o per creare e restituire alla collettività ciò che ha ricevuto, arricchito delle sue competenze. Il suo successo ed il suo sviluppo partono da qui, da queste semplici premesse.

Tradizionalmente, la comunità scientifica è disponibile a scambiarsi esperienze e saperi. Grazie alle politiche dell’open government, gli stessi Governi hanno iniziato a rendere disponibili dati ed informazioni ed a promuovere l’utilizzo di software open source per ridurre i costi e facilitarne il riutilizzo ai cittadini ed alle stesse amministrazioni. L’industria è meno avvezza a questo tipo di impostazione. Da sempre abituata a brevettare invenzioni ed opere di ingegno, ed anche a far quadrare i conti, cerca il ritorno economico dei suoi investimenti in ricerca e sviluppo.

Alcune delle tecnologie attuali più innovative (intelligenza artificiale o Internet of Things) non sono basate sullo stesso modello di standard aperti del World Wide Web. Sono proprietarie, coperte dal segreto industriale, anche se, spesso, sono sviluppate, a loro volta, grazie alle conoscenze liberamente disponibili (un esempio per tutti: il sistema operativo dei prodotti McOS di Apple è stato sviluppato a partire da Unix). La stessa “industria dei contenuti”, forse stanca del continuo saccheggio, nella sua battaglia contro la pirateria on-line ha iniziato ad utilizzare software come il Digital Rights Management (DRM) per limitare le capacità delle persone di copiare o modificare i materiali protetti da copyright, anche a scapito della sicurezza – il DRM è un sistema chiuso che potrebbe nascondere vulnerabilità occulte – e della libertà dell’utente di utilizzare i contenuti legittimamente acquistati su diversi dispositivi (ad esempio, visualizzare lo stesso film scaricato sul computer sul proprio pad o smartphone).

Nasce il c.d. dilemma digitale: il conflitto tra l’esigenza di non limitare la diffusione dei contenuti digitali e quella, contrapposta, di tutelare in modo adeguato la proprietà intellettuale. Quali dei due modelli di sviluppo risulterà vincente? Esiste un modo per contemperare le due esigenze? La libertà di espressione e la libertà di informazione rappresentano diritti inviolabili dell’uomo, così come quello di vedersi riconosciuta la paternità morale di un’opera, intellettuale, artistica, dell’ingegno e di decidere liberamente se sfruttarla economicamente o offrirla gratuitamente alla comunità. Ciò che va ripensato sono i fondamenti dell’agire umano nell’era di Internet: più che di leggi sul copyright o di accordi commerciali internazionali sulla proprietà intellettuale negoziati a porte chiuse, dobbiamo stabilire un nuovo patto su cosa è alfabeto, utilizzabile da chiunque, bene comune per eccellenza, e ciò che è legittima iniziativa economica, senza che l’uno cannibalizzi l’altra.

Gea Arcella

Nata a Pompei, dopo gli studi classici svolti a Torre Annunziata, si è laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Trieste nel 1987. Nel 2007 ha conseguito con lode un master di II livello presso l'Università “Tor Vergata” di Roma in Comunicazione Istituzionale con supporto digitale. E' notaio in provincia di Udine e prima della nomina a notaio ha svolto per alcuni anni la professione di avvocato. Per curiosità intellettuale si è avvicinata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie e dal 2001 collabora con il Consiglio Nazionale del Notariato quale componente della Commissione Informatica . Già professore a contratto presso l'Università Carlo Bò di Urbino di Informatica giuridica e cultore della materia presso la cattedra di diritto Civile della medesima Università, attualmente è docente presso la Scuola di Notariato Triveneto e Presso la Scuola delle Professioni legali di Padova di Informatica giuridica e svolge attività formative sia interne che esterne al Notariato. E' socia di diverse associazioni sia culturali che orientate al sociale, crede che compito di chi ha ricevuto è restituire, a partire dalla propria comunità. 

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