Aldo Moro: dalle ragioni del sequestro al ritrovamento del corpo in via Caetani

La mattina del 16 marzo 1978 venne rapito dalle Brigate Rosse (un’organizzazione terroristica italiana di estrema sinistra nata per sviluppare la lotta armata negli anni tra 1970 e il 1990) l’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, uno dei maggiori partiti dell’epoca insieme al Partito Comunista. Insieme al segretario del Partito Comunista Berlinguer, l’onorevole era fautore del famoso “compromesso storico”, il quale prevedeva che le due fazioni formassero una maggioranza in parlamento permettendo così ai due schieramenti di guidare il Paese. Secondo una ricostruzione del Professor Alessandro Barbero, le Brigate Rosse scelsero Aldo Moro tra una serie di candidati, in cui vi erano Giulio Andreotti (presidente del Consiglio) e Amintore Fanfani (presidente del Senato), per diversi motivi. Innanzitutto, le Brigate Rosse non avevano sufficienti indizi ed elementi per poter pianificare il rapimento di Fanfani; altro elemento determinante fu la collocazione dell’abitazione di Andreotti. Quest’ultimo, infatti, viveva in centro ed era impossibile per le Brigate Rosse portarlo via senza farsi notare. Al contrario, Moro era l’unico obiettivo fattibile in quanto viveva in periferia ed era facile reperire informazioni su di lui.

L’operazione Moro

Le Brigate Rosse erano divise in colonne che prendevano il nome dalle città in cui operavano. La colonna Romana capitanata da Mario Moretti (colui che ucciderà materialmente Moro) fu quella che pianificó l’agguato in ogni minimo dettaglio.

Il presidente tutte le mattine percorreva sempre la stessa strada. Franco Bonisoli, personaggio di spicco delle Brigate Rosse e appartenente alla colonna Milanese, disse ai suoi compagni durante una riunione che una mattina si era trovato per caso di fronte alla Chiesa di Santa Rita a Roma, dove vide parcheggiate due auto blu. A quel punto, incuriosito, aveva notato che Moro si fermava a pregare accompagnato dalla scorta che nel frattempo lo aspettava fuori. Bonisoli tornò anche nei giorni successivi e notò che il presidente faceva esattamente tutti i giorni lo stesso tragitto. Partiva da casa sua a Montemario e si fermava sempre a Santa Rita a pregare. Lì il traffico non era caotico, quindi il rapimento del presidente democristiano poteva realizzarsi. Inizialmente si pensò di rapirlo in Chiesa ma l’ipotesi venne scartata sia perché vicina alle scuole sia perché i brigatisti non volevano rischiare uno scontro a fuoco con la scorta rischiando di fare vittime innocenti. A quel punto si pensò di rapirlo all’Università di Roma dove lui insegnava quotidianamente, ma anche questa ipotesi fu subito scartata perché troppo pericolosa. I brigatisti quindi iniziarono a pensare che l’unico posto dove Moro potesse essere rapito fosse per strada, ma questo significava uccidere la scorta, e per poter effettuare una simile azione i brigatisti dovevano disporre di coperture e di molto denaro.

Pianificarono di portare a termine il rapimento in via Fani. Il gruppo era composto da quattro persone: Valerio Morucci, Prospero Gallinari, Mario Moretti e Franco Bonisoli. Si travestirono da piloti dell’Alitalia perché così non avrebbero destato sospetti, facendo finta semplicemente di aspettare il pulmino che li avrebbe portati all’aeroporto; in modo che nessuno si sarebbe allertato. Inoltre, gli impermeabili che indossavano nascondevano bene i giubbotti anti proiettili, mentre i borsoni da viaggio celavano i mitra. Le armi che utilizzavano i brigatisti, secondo i racconti dello stesso Moretti, erano rubate o addirittura comprate dall’OLP palestinese (Organizzazione Politica e Paramilitare per la Liberazione della Palestina), che sarebbe rimasto l’unico contatto internazionale delle Brigate. Infatti, molti all’epoca pensavano che ci fossero dietro gli Stati Uniti per via della Guerra Fredda anche se, in realtà, non erano loro a guidare le Brigate Rosse.

Per il sequestro furono necessarie delle automobili che vennero rubate nelle settimane precedenti da alcuni esponenti dell’organizzazione che, ignari di cosa potessero servire, le consegnavano a qualcuno che aveva il compito di prenderle in custodia e di spostarle di tanto in tanto per non destare sospetti. Queste automobili dovevano essere anonime, con targhe diverse dalle originali. L’automobile più importante era una Fiat 128, la quale rimase ferma il 15 e 16 marzo in Via Fani. Il giorno dell’agguato, questa doveva uscire dal parcheggio ed immettersi davanti alle auto del presidente e, una volta davanti allo stop, si doveva fermare in modo da far bloccare le auto che sarebbero state trivellate di piombo dai mitra brigatisti. Chi guidava la 128 era Moretti, lo stesso che aveva avuto l’idea di mettere su quell’auto una targa del corpo diplomatico in modo da non far insospettire gli uomini della scorta. Le altre vetture erano una Fiat 132, in cui venne caricato Moro, e altre due Fiat 128, una blu e una bianca, con cui il gruppo sarebbe stato in grado di dileguarsi dalla scena del crimine. Il mattino del 16 marzo del 1978 Moretti ebbe il compito fondamentale di passare di fronte a casa di Moro per controllare se le auto blu della scorta erano lì come tutte le mattine, e così è stato. Avvertì tutti i compagni che l’operazione si sarebbe svolta e che ognuno di loro avrebbe dovuto trovarsi nel punto che gli era stato assegnato. Rita Algranati era una compagna che Moretti avrebbe avvisato con un segnale quando si sarebbe dovuto immettere con la sua auto di fronte alla scorta. Questa avrebbe tenuto in mano un mazzo di fiori per non destare sospetti e, una volta passate le macchine, avrebbe fatto il segnale e sarebbe andata via con la sua vespetta, ignorando cosa stava per accadere.

Al segnale Moretti si immise davanti alle automobili e frenò allo stop. Le automobili di Moro inchiodarono e i compagni che si trovavano dall’altra parte della strada aprirono il fuoco. L’autista di Moro morì subito, e mollò i pedali andando a sbattere contro l’automobile di Moretti. Nella prima auto c’era il maresciallo Leonardi, l’autista e Moro mentre nella seconda macchina c’erano altri tre uomini della scorta. Moro si trovava dietro ed era facile da non colpire anche per chi, come loro, risultava essere un tiratore principiante. Questo Moretti lo riferì al processo, spiegando che nel commando non aveva quasi mai sparato. Due mitra su quattro durante l’azione si incepparono ma questo non portò alcun danno, in quanto anche la scorta era armata molto male: il Maresciallo aveva una pistola che teneva sotto il sedile in un borsello, mentre l’autista teneva la pistola nel cassetto del cruscotto e l’unico mitra in dotazione alla scorta era nel bagagliaio dell’alfetta. Questa estrema disorganizzazione era dovuta al fatto che nessuno, all’epoca, si sarebbe aspettato un’azione simile nei confronti di Moro. Infatti l’arma si trovava in stiva perché gli uomini della scorta non sapevano usarla, come riferì la vedova di Moro durante il processo. Venne trovato dai brigatisti dopo aver ucciso tutta la scorta e caricato il corpo di Aldo Moro nella macchina. Riuscirono a trovarlo perché in quei pochi secondi dopo l’agguato cercarono le borse di Moro con le sue carte. Lo stesso Moro fece intuire che la scorta era inadeguata e, in una lettera dalla prigionia in cui si trovava indirizzata a Zaccagnini, segretario della Democrazia Cristiana datata 4 aprile, ha scritto: ”Se la scorta non fosse stata al di sotto della situazione per questioni amministrative, io forse non sarei qui”. Uno degli uomini  della scorta, Raffaele Iozzino, grazie al fatto che due mitra su quattro si incepparono, riuscì a scendere dall’auto ma immediatamente venne preso di mira e ucciso. Vennero sparati 91 colpi di cui 45 colpirono la scorta.

Finito l’assalto, Moretti prese Moro e lo caricò in auto, una fiat 132 che arrivava da via Stresa, insieme alle altre tre che servivano per la fuga. La prima delle quattro automobili serviva da copertura, da diversivo. Volarono via velocemente, si fermarono in piazza Madonna del Cenacolo e, a quel punto, Franco Bonisoli e Raffaele Fiore si diressero alla stazione di Roma Termini per far ritorno nelle rispettive città, mentre gli altri tornarono a casa davanti ai televisori per vedere cosa si dicesse dell’agguato e sul loro conto. Bonisoli era un importante esponente delle Brigate Rosse, come Fiore, solo che il primo vi apparteneva ed era il capo della colonna milanese mentre il secondo di quella torinese. In piazza Madonna del Cenacolo, Moro venne caricato su un furgone dentro un cassone di legno scomodo e fatto male, tanto che dopo essere arrivati a destinazione i rapitori gli chiesero addirittura scusa, secondo le parole dei brigatisti.

La prigionia e la morte

A quel punto iniziò l’odissea dei cinquantacinque giorni più bui della storia della Repubblica Italiana, in cui lo Stato decise di non cedere alle richieste di scambio di alcuni prigionieri provenienti dalle Brigate Rosse. Questa decisione è stata presa con l’unico scopo di non elevare le Brigate ad interlocutori, mandando in fumo le speranze di ritrovare Aldo Moro vivo. L’onorevole venne trovato morto in via Caetani, all’interno di una Renault 4 rossa, il 9 maggio del 1978, stesso giorno in cui la mafia siciliana assassinò Peppino Impastato. La macchina in cui venne trovato Moro si trovava a poca distanza dalla sede nazionale del Partito Comunista e da quella della Democrazia Cristiana. Una scelta, forse, non del tutto casuale.

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