Repubblica Democratica del Congo, un inferno per donne e bambini

La Repubblica Democratica del Congo è un paese dell’Africa centrale dove la vita è particolarmente difficile e complicata. Già l‘Indice di sviluppo umano, che tiene in considerazione l’aspettativa di vita alla nascita, l’istruzione e il PIL pro capite, può darci un’idea visto che nel 2016 (e non per la prima volta) la Repubblica Democratica del Congo era all’ultimo posto nelle classifiche mondiali.

La RDC inoltre è, purtroppo, conosciuta per essere particolarmente pericolosa per le donne, al punto che spesso è stata definita “la capitale mondiale dello stupro” visto l’altissimo, ma impossibile da rilevare, numero di donne di tutte le età che sono vittima di violenza. Potrebbe essere anche per questo che la RDC risulta sempre negli ultimi posti nelle classifiche che misurano l’eguaglianza di genere: era infatti 84° su 86 paesi nel Social Institutions and Gender Index (SIGI) e 144° su 148 paesi nel Gender Inequality Index (GII) nel 2012.  

Per conoscere meglio la situazione in questo paese abbiamo intervistato chi ha potuto avere un’esperienza diretta delle condizioni in cui versa la popolazione, ed è Cristina Duranti, direttrice della Fondazione Buon Pastore, che da diversi anni si occupa di migliorare le condizioni di vita di una comunità di artigiani minerari del Katanga, grande regione meridionale della Repubblica Democratica del Congo che confina con Angola, Zambia e Tanzania. In questa regione, infatti, il settore più redditizio è quello delle estrazioni minerarie, prevalentemente di cobalto e ferro, che tra sfruttamento, mancanza delle condizioni di sicurezza più basilari e i pericoli per la salute rendono la vita ancora più difficile. La fondazione si occupa principalmente di donne e bambini, sfruttati fin da piccoli in questo settore, e implementa alcuni progetti di cooperazione e sviluppo per migliorare le loro condizioni di vita.

È per questo che a Cristina Duranti abbiamo posto, principalmente, due questioni:  qual è la condizione di donne e bambini e cosa fa, concretamente, la Fondazione per migliorare la loro situazione.

bambino congo cobalto

Un ragazzo impegnato nel trasporto di un sacco di cobalto

Ogni donna congolese è stata vittima di violenza

La Fondazione Buon Pastore opera in Katanga dal 2012,  in una comunità di artigiani minerari, dove in circa “tre anni ha coinvolto 5000 persone di cui 1000 bambini”. Al suo arrivo, gli operatori umanitari hanno trovato “una condizione estrema di vita soprattutto tra bambini, ragazzi e donne,nell’assenza completa di infrastrutture, scuole e servizi sanitari”. Questo è dovuto, secondo la direttrice, alla sbagliata gestione degli investimenti da parte del governo, che invece di andare ai servizi per la popolazione vanno quasi totalmente al settore minerario.

Le donne, aggiunge Cristina Duranti, lavorano in “varie fasi dell’estrazione mineraria, nonostante il divieto della legge congolese del lavoro per quelle in età fertile”, causando così, visto il loro entrare in contatto con materiali tossici, la “nascita di bambini con malformazioni anche gravi”. Questo lavorare però, è dato dalla necessità di affrontare la grave povertà che affligge la popolazione congolese, povertà data da “corruzione e dalla presenza di gruppi minerari che non distribuiscono in modo equo le risorse”. Questo è un punto molto controverso, denunciato anche da Amnesty International, perché il cobalto è usato soprattutto per le batterie di cellulari e tablet, e quindi rappresenta  un grosso giro d’affari soprattutto per le principali società coinvolte nella vendita di questo genere di prodotti.

Una raccolta di informazioni, effettuata nel 2012 all’arrivo della Fondazione, aveva rilevato che in alcune comunità il tasso di analfabetismo, soprattutto tra le donne, “rasentava quasi il 100%” e l’assistenza sanitaria era praticamente inesistente con una morte di parto ogni 20-30 nascite. Un dato drammatico, conseguenza anche “dall’incapacità di prevenire le gravidanze o di pianificarle”, elemento connesso direttamente al livello di istruzione molto basso.

È stato rilevato anche un tasso di violenza sulle donne elevatissimo, “quasi il 100% delle intervistate ha infatti dichiarato di essere stata vittima di una qualche forma di violenza”. Questa è sia in famiglia, sia nella comunità ed è colpa anche di un “grosso abuso di alcol e sostanze” che aumentano il rischio ad un ricorso alla violenza. Non aiuta nemmeno il fatto che le comunità siano “non indigene” composte cioè da persone provenienti da tutto il Congo e attirate dai “facili” guadagni delle miniere dove si incontrano quindi “persone di etnie, e lingue diverse. Una diversità che rende la comunicazione quasi impossibile e aumenta il senso di insicurezza percepito”. Inoltre manca “una cultura alla denuncia”, e il “complesso sistema di doti” aumenta le violenze all’interno delle famiglie.

Cristina Duranti, inoltre, racconta che le doti vengono pagate dal marito e, in condizioni di povertà estrema, si ricorre spesso ad accordi tra le famiglie con la formazione anche di grossi debiti. Questo pone spesso la donna in una “situazione vessatoria nella quale diventa, di fatto, proprietà del marito”: la denuncia è praticamente impensabile. La situazione delle madri spesso si ripercuote anche su quella dei figli che subiscono, in un certo senso, le stesse ingiustizie e gli stessi problemi.

bambini fondazione buon pastore

A 3 anni nelle miniere: il destino segnato dei bambini congolesi

Anche la situazione dei bambini non è per niente facile. Molto spesso sono costretti ad iniziare a lavorare da piccolissimi per aiutare a mantenere la famiglia e la disinformazione che affligge i genitori ha spesso ripercussioni anche su di loro. Secondo la testimonianza della Fondazione, “I bambini iniziavano ad entrare nei siti minerari già a 3-4 anni quando iniziano a camminare per accompagnare le madri, finendo però comunque con entrare in contatto con i materiali tossici.”

Iniziano a “lavorare in età scolare e adolescenziale”, nonostante l’età minima per lavorare in RDC sia fissata a 18 anni. L’UNICEF parla di circa 40.000 bambini impiegati nel lavoro nelle miniere in tutto il Katanga, ma in realtà Cristina Duranti evidenzia come “le stime sono poco attendibili, vista l’ampiezza del problema, ma molto probabilmente il numero è sicuramente superiore alle 10.000 unità”.

La maggior parte vanno nelle miniere “saltuariamente, due-tre volte a settimana, quando non c’è scuola, anche perché non ci sono effettivamente alternative come strutture dove fare attività ricreative o sport”.

Questa mancanza di alternative, riscontrabile un po’ in tutte le fasce di età, impedisce loro “di vivere secondo la loro età”.

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Uno dei siti minerari

 

Fondazione Buon Pastore, dal 2012 accanto a donne e bambini

Dal 2012 la Fondazione Buon Pastore ha cercato di intervenire con la costruzione di strutture a 360° dove vengono offerti alle donne corsi sanitari e di igiene, ma anche di istruzione base. Questo dovrebbe aiutare le donne ad avere una maggiore consapevolezza soprattutto delle questioni che riguardano il loro corpo e la salute dell’intera famiglia.

Si cerca inoltre di incentivare la creazione di piccole attività agricole, gestite dalle donne, in modo da dar loro gli strumenti necessari a migliorare da sé la propria condizione economica e d’indipendenza. L’effetto è stato molto positivo, visto che la sensibilizzazione delle donne ha aiutato anche a cambiare la situazione dei bambini: “abbiamo riscontrato, illustra la direttrice, un calo drastico del lavoro minorile e un miglioramento delle condizioni di salute di tutta la famiglia.”

Per quanto riguarda i bambini, la Fondazione Buon Pastore ha invece creato delle strutture ricreative e sportive, in aggiunta a classi per l’aiuto all’istruzione. L’obiettivo è offrire a questi bambini delle alternative per trascorrere il loro tempo libero in maniera più adatta alla loro età: una proposta accolta con entusiasmo, infatti la quasi totalità ha scelto volontariamente di non lavorare più nelle miniere”. Cristina Duranti non ha dubbi: “questi bambini hanno compreso i rischi che si corrono nel lavorare nelle miniere e hanno iniziato anche attivamente a informare bambini di altre comunità grazie anche a cartelloni creati da loro”.

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