Comunicare l’immigrazione: il valore dell’etica e della competenza interculturale-digitale

Il nostro comportamento all’interno dei social media mostra a noi tutti che, come le scienze comportamentali dimostrano nelle più recenti ricerche, siamo più mossi dalle emozioni che dalla ragione, che preferiamo mantenere intatti nostri pregiudizi anche se ciò a cui crediamo si dimostra poi totalmente errato, che siamo sempre meno disponibili al confronto e abili haters davanti ad uno schermo. In poche parole: ascoltiamo e comunichiamo non per capire, ma solamente per rispondere e si entra in contatto con l’Altro in quanto “diverso”. Alcuni sociologi, analizzando la dimensione comunitaria nel nuovo scenario digitale, riconoscono la nascita di nuove forme di legami che definiscono “neotribali”. Le modalità per sentirsi vicino ad una persona ruotano esclusivamente attorno ad uno stato emozionale comune: la simpatia. Tali formazioni chiuse, autoreferenziali, non hanno progetti comuni, non diffondono conoscenza, non sono classificabili come  “intelligenze collettive e connettive”, ciò che le muove è il semplice desiderio di sentirsi parte di un gruppo dove tutti la pensano allo stesso modo; dunque  non c’è confronto, ognuno vive tranquillo con le proprie verità nella propria “bolla”.

L’utilizzo inconsapevole dei  social  in questo senso, rischia di essere utilizzato per costruire strategie difensive per deviare dall’eticità, per sfuggire al processo di negoziazione e condivisione necessario (per sua definizione) in un processo comunicativo-relazionale.

Hate speech: esempio di comunicazione violenta

Paul Ricoeur, filosofo della comunicazione, affermava come fosse  necessario individuare sempre una “situazione limite” in ogni cosa e cioè capire quando l’utilizzo dei social, in questo caso, nutre o danneggia una società. Ogni giorno ci imbattiamo anche per sbaglio in espressioni verbali violente in Rete (hate speech). L’odio verbale online rappresenta una realtà che non si limita solamente alla dimensione virtuale, ma ha effetti concreti anche nella vita offline. I social network rischiano sempre più di trasformarsi in ambienti tossici, in campi di battaglia, “far west virtuali” dove domina il conflitto, dimenticando cosi l’esistenza di un’etica, di regole conversazionali, nei processi comunicativi online ed offline. L’odio sul web nasce dalla realtà e lì poi ritorna.

Bullismo, omofobia, odio politico e religioso, tutto questo diventa “cyber” e si trasforma in violenza verbale online, in azioni d’odio, le cui vittime sono spesso sconosciuti. Non esiste più, secondo Giovanni Ziccardi, docente di Informatica Giuridica, l’odio di una persona contro l’altra, ma ci sono migliaia e migliaia di persone che si coalizzano e condividono espressioni d’odio nei confronti di un singolo. Questo avviene perché la tecnologia ha annullato le distanze ed ha consentito anche simili comportamenti che appaiono nuovi, quantomeno nella loro ricorrenza. Internet ha equiparato le discussioni, basta che l’argomento diventi un topic di tendenza e arriva ad assumere un ruolo di primaria importanza nella panoramica online.

L’istituzionalizzazione dell’odio porta ad un aumento del livello di tolleranza che è facile da raggiungere, ma non da rimuovere e il rischio è quello di abituarsi a certi tipi di espressioni. Ziccardi parla di “mercato dell’odio”: l’ hate speech crea flusso, interazione, diventa “moneta relazionale” e quindi, crea profitto e consenso. La sua diffusione avviene attraverso tre fasi principali: volontà, incitamento e violenza. La domanda lecita a questo punto è: Come ne usciamo?

Potremmo considerare tre soluzioni efficaci: diritto, tecnologia ed educazione. Capire le dinamiche interne al web, ritornare a ri-costruire le regole della comunicazione umana, saper riconoscere i reati d’opinione ricreando un quadro normativo di riferimento, potrebbero essere buone soluzioni per ritornare a confrontarsi civilmente anche all’interno delle piattaforme digitali. L’hate speech è la nuova battaglia (cyber)culturale.

 

Comunicare (con) l’Altro

Tutto ciò è ancora più evidente se consideriamo il rapporto immigrazione-informazione  e nuove pratiche mediali. I processi migratori, se da sempre costituiscono un fattore di grande importanza sulle strutture e sulle dinamiche complessive dell’organizzazione sociale, da più di trent’anni hanno visto crescere la loro rilevanza e il loro impatto per essere al centro dei processi di globalizzazione che investono anche il nostro Paese e del dibattito sociale, politico ed economico. Nonostante ciò, risentono ancora di produzioni discorsive e visive distorte, più orientate a costruire confini nell’immaginario sociale e a legittimare la distinzione tra “loro” e “noi”, che non a fornire indicazioni utili per sviluppare politiche di integrazione e cittadinanza. (Musarò, Parmiggiani, 2014).

Troppo spesso, infatti, le notizie e le immagini sui migranti diffuse dai mass media e in Rete, non solo non rendono giustizia del profilo demografico, economico e sociale del fenomeno migratorio, ma contribuiscono ad alimentare quei processi di categorizzazione, di etichettamento e di insicurezza sociale da cui scaturiscono stereotipi e discriminazioni nei confronti dell’altro (Corte, 2014). È così che l’identità dell’uomo migrante si configura solo ed esclusivamente attraverso gli occhi del paese di immigrazione: il migrante è un “non-nazionale”, è altro rispetto al tutto, è un non-soggetto sociale.

Macioti riconosce un forte senso di irresponsabilità da parte dei media sociali e digitali, allo stesso tempo il sociologo Silvestone suggerisce di riconoscere la rilevanza di una nuova condizione: quella del “ pluralismo mediatico” e la nascita di “culture polifoniche” all’interno della “Mediapolis”. L’incontro inter-culturale nella vita online ed offline, in mancanza di educazione e competenze interculturali e mediali, può alimentare pregiudizi, etnocentrismi, “spersonalizzazioni” del cittadino straniero e il fenomeno dell’hate speech ne è un serio esempio. Vi  è un serio rischio cosi che si verifichino veri e propri conflitti sociali tra popoli, che finiscano per acuire le distanze e le possibilità di dialogo.

Narrazione e sensibilità interculturale

Uno strumento che potrebbe essere utile ad evitare che l’incontro assuma dinamiche di scontro e di conflitto è rappresentato dalle competenze interculturali e digitali.

Nella definizione proposta dall’UNESCO, la competenza interculturale è “un nuovo tipo di alfabetizzazione, parimenti importante alle abilità nella scrittura, nella lettura o matematiche: l’alfabetizzazione culturale è l’ancora di salvataggio nel mondo di oggi, una risorsa fondamentale per gestire in modo adeguato i molteplici luoghi attraverso cui l’educazione si trasmette (dalla famiglia e dalla tradizione fino ai media, sia vecchi sia nuovi, e dalle attività e i gruppi informali) e uno strumento indispensabile per superare lo scontro tra ignoranze”.

Il motore di tutto questo processo che mira all’integrazione, comprendendo dunque il passaggio dall’etnocentrismo all’etnorelativismo, è la comunicazione empatica e cioè un nuovo modo di relazionarsi e conoscere l’Altro, non solo accettando e riconoscendo la differenza, ma adottando un nuovo stile comunicativo-narrativo, una nuova visione del mondo, ampliando cosi il proprio repertorio comportamentale. La conoscenza, la comunicazione e la formazione oggi su queste tematiche, sono la radice di un processo interculturale ancora molto debole e anche per questo le politiche socio-economiche finora attuate, si sono dimostrate poco efficienti. Non bisogna dimenticare  che la cultura è un cammino continuo che si sviluppa, si evolve e la comunicazione-narrazione rimane ancora l’unica via non conflittuale e pacifica per affrontare la contemporaneità.

Etica dell’informazione e della comunicazione

Può aiutarci a trovare il giusto equilibrio, non esaustivo certamente, ma utile in questa sede, il concetto di etica, disciplina che si occupa di considerare e valutare l’insieme degli atti che costituiscono la condotta (l’agire) dell’individuo. L’etica sta in mezzo, fra emozioni e media, a significare che qualunque discorso sul rapporto fra mezzi, uomo e vissuti emotivi, assume una profondità e un significato differenti, a seconda che venga inquadrato sotto un profilo di natura strumentale oppure attraverso la lente di un approccio etico-umanistico.

Secondo Bauman (1996) «sembra che  abbiamo bisogno di un tipo del tutto nuovo di etica. Un’etica fatta su misura dell’enorme distanza spazio-temporale in cui possiamo agire e su cui agiamo, anche se non lo sappiamo né lo vogliamo».

Disintossicare il web dai fenomeni di hate speech, educarci ai media e ad una “sensibilità interculturale”, è evidentemente un grande sforzo, ma  è possibile, a partire dalla creazione di un nuovo storytelling positivo e responsabile, che punti al bene comune e non all’autocelebrazione, all’ascolto dell’Altro e non al maggior numero di like, provando cosi a re-imparare a dialogare e vivere in un contesto globalizzato-on-life, valorizzando la Differenza.

 

Giacomo Buoncompagni

Buoncompagni Giacomo. Phd student in Human Sciences presso l’università di Macerata. Dottore in comunicazione , specializzato in comunicazione pubblica e scienze criminologiche . Ha conseguito diplomi di master universitari di secondo livello in ambito criminologico-forense. Esperto in comunicazione strategica, analisi dei media e linguaggio non verbale. Cultore della materia e Collaboratore di Cattedra in “Sociologia generale e della devianza“ e “Comunicazione e nuovi media”presso l’Università di Macerata. E’Presidente provinciale dell’associazione Aiart di Macerata e autore del libro “Comunicazione Criminologica”( Gruppo editoriale l’Espresso2017). giacomo.buoncompagni@libero.it 

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