La tragedia dei Rohingya: così può nascere una persecuzione

Lo scorso 25 agosto l’esercito birmano del Myanmar ha lanciato un’offensiva militare nei confronti di tutti gli appartenenti all’etnia Rohingya presenti nello Stato del Rakhine. Da quel giorno, costretti alla fuga, circa 650mila Rohingya hanno attraversato il confine tra Myanmar e Bangladesh, diretti a Balu Khali – campo di emergenza allestito nel fango della città di Cox’s Bazar, situata a sud, lungo la costa del Golfo del Bengala.
Durante gli scontri i militari birmani hanno perpetrato le peggiori atrocità, incendiando interi villaggi, commettendo stupri e uccidendo bambini. Secondo le ultime stime fornite dalla ONG Medici Senza Frontiere, tra il 25 agosto e il 24 settembre sono morte, a causa delle violenze commesse dai componenti dell’esercito birmano, almeno 6700 persone di etnia rohingya, tra le quali 730 bambini di età inferiore ai 5 anni. L’attacco va però contestualizzato e letto all’interno di una storia, quella della minoranza rohingya, testimone di innumerevoli tentativi e azioni di emarginazione sociale, di discriminazione a sfondo etnico-religioso, di privazione di diritti e, infine, di persecuzione. È quindi necessario comprendere l’epilogo alla luce della contrapposizione tra una maggioranza birmana, di etnia bamar e di fede buddhista, e una minoranza rohingya, di credo islamico. È fondamentale farlo, soprattutto, per capire in che modo una persecuzione possa nascere, manifestarsi e trovare persino giustificazione sociale da parte dell’opinione pubblica.

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Cronistoria di una tragedia annunciata

Filippo Grandi, attuale Alto Commissario ONU per i rifugiati, ha definito la crisi in Myanmar come “la più urgente emergenza rifugiati al mondo” mentre Zeid Ra’ad Al Hussein, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha parlato di “textbook example of ethnic cleansing” ovverosia di un “esempio di pulizia etnica da manuale”. Le cause di quest’immane tragedia sono da ricercare tra le pieghe della discussa origine storica del popolo Rohingya che, secondo l’Organizzazione nazionale dei Rohingya dell’Arakan (ARNO), vive nelle zone dell’odierno stato del Rakhine “da tempo immemorabile”.

Gli storici si trovano in forte contrapposizione nello stabilire l’origine autoctona o forestiera della minoranza musulmana. Alcuni ritengono che i Rohingya abitino le zone dell’attuale Myanmar fin dai primi decenni del XII secolo. Altri, invece, fanno risalire la loro comparsa nel territorio birmano alla massiccia immigrazione di lavoratori provenienti dalle attuali zone dell’India e del Bangladesh che avvenne durante l’occupazione britannica della Birmania (1824-1948) e che, secondo i censimenti dell’epoca, portò la popolazione musulmana a triplicare tra il 1871 e il 1911.

Questi ingressi furono visti negativamente dalla maggior parte della popolazione nativa e la frattura si aggravò ulteriormente durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa del sostegno dei Rohingya alla Gran Bretagna (che aveva promesso loro la creazione di un’”area nazionale musulmana”), a differenza della maggioranza buddhista che supportò le forze giapponesi. Di conseguenza, una volta ottenuta l’indipendenza nel 1948, il governo birmano definì “illegali” tali spostamenti migratori, rifiutando di riconoscere la cittadinanza ai Rohingya immigrati, considerati da lì in avanti come “musulmani bengalesi” e rifiutando così l’idea della loro origine indigena.

In realtà, la legge sulla cittadinanza varata nel 1948 permetteva ai Rohingya presenti nel Myanmar da almeno due generazioni di fare domanda per la carta d’identità. Successivamente però, il colpo di stato del 1962 condotto dal generale Ne Win peggiorò drasticamente la situazione per i Rohingya, ai quali furono concessi solamente documenti di registrazione “per stranieri” che limitavano le loro possibilità educative e di lavoro. Nel 1982, infine, la nuova legge sulla cittadinanza riconobbe come cittadini esclusivamente gli appartenenti alle “razze nazionali” (cioè quelle considerate abitanti del Myanmar dal periodo precedente al dominio coloniale britannico) rendendo di fatto apolide il popolo rohingya. Inoltre, uno dei requisiti posti dalla legge per ottenere la cittadinanza era la buona conoscenza di una delle lingue nazionali, condizione svantaggiosa per i Rohingya che parlano un dialetto distinto dagli idiomi ufficiali: il “Rohingya” o “Ruaingga”. A causa della riforma del 1982, di conseguenza, i componenti dell’etnia rohingya subirono gravi restrizioni dei loro diritti a studiare, lavorare, viaggiare, accedere ai servizi sanitari, sposarsi, partecipare alla vita pubblica o praticare la propria cultura.

Dalla discriminazione alla violenza: il ruolo della società birmana

Contestualmente alle discriminazioni dinanzi alla legge, dal 1962 in avanti, la popolazione musulmana presente in Birmania, in particolare quella di etnia Rohingya, fu oggetto di continui abusi dei diritti umani (stupri, uccisioni e torture) da parte delle forze militari a disposizione del governo dittatoriale birmano. In particolare, l’esercito sottopose il gruppo a espulsioni di massa forzate, prima nel 1977 e poi nel 1992, causando ripetute situazioni di emergenza rifugiati lungo la frontiera con il confinante Bangladesh. Il resto, purtroppo, è storia recente. Le violenze sono continuate persino nel periodo di transizione democratica avviatosi con la vittoria del partito USDP alle elezioni popolari del marzo del 2011 e la conseguente costituzione di un governo civile guidato dall’ex Primo Ministro Thein Sein. Addirittura, nel 2012, a seguito dell’ennesima escalation di violenza settaria nei confronti dei Rohingya, lo stesso Presidente Thein Sein propose ad Antonio Guterres, l’allora Alto Commissario ONU per i rifugiati, di ricollocare tutti i Rohingya all’interno di campi profughi gestiti dall’UNHCR o di deportarli in altre nazioni.

Queste dichiarazioni, aspramente criticate dalla comunità internazionale, mostrarono chiaramente il rifiuto del governo del Myanmar di riconoscere l’esistenza di una persecuzione contro i Rohingya oltre che, di conseguenza, l’assoluta assenza di un impegno statale nel contrastarla. Per di più, le forze di sicurezza e gli ufficiali birmani, autori degli innumerevoli crimini ai danni dei Rohingya, non furono mai soggetti a procedimento penale. Nell’aprile del 2013 la ONG Human Rights Watch parlò per la prima volta di una “campagna di pulizia etnica” condotta dal governo birmano nei confronti della minoranza musulmana. Nello stesso anno, il Myanmar assunse per la prima volta la presidenza dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), rifiutando esplicitamente di discutere l’argomento Rohingya perché costituente un “affare interno allo Stato”.

Il 9 ottobre dell’anno scorso, a seguito dell’uccisione di 9 agenti della polizia che le autorità birmane imputarono all’Organizzazione Solidarietà dei Rohingya (RSO), le truppe militari governative imposero un ulteriore giro di vite, commettendo gravissime violazioni dei diritti umani durante l’ispezione dei villaggi dei Rohingya nello Stato del Rakhine. Alla base dell’ultima offensiva militare lanciata il 25 agosto e colpevole dell’attuale fuga di massa dei rifugiati Rohingya verso il Bangladesh, invece, c’è un altro attacco, di cui è stato ritenuto responsabile l’Esercito per la Salvezza dei Rohingya dell’Arakan (ARSA).

Tutto ciò è stato possibile anche a causa della passività della società birmana, oramai pervasa da sentimenti e convinzioni anti-Rohingya e anti-musulmane. Questi pregiudizi sono talmente intensi e radicati che persino l’attuale Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi (insignita del Nobel per la pace nel 1991) non ha trovato la forza per condannare pubblicamente le violenze subite dai Rohingya. Sia le politiche di non-riconoscimento adottate dal 1948 in poi che l’azione mistificante dei media di regime durante la dittatura militare sono largamente responsabili per questa situazione. Più recentemente, un ruolo cruciale nel fomentare tale ostilità lo ha senz’altro svolto la parte revivalista della Sangha (cioè la comunità monastica buddhista) e in particolare il Movimento 969, organizzazione anti-musulmana guidata dal monaco Ashin Wirathu e promotrice di istanze etno-nazionaliste.

Fin dai primi anni ’90, il gruppo ha portato avanti un’opera di demonizzazione dei Rohingya, alimentando pregiudizi e paure legate alle volontà secessionistiche dei musulmani del Rakhine, nonché evidenziando il pericolo demografico che il loro presunto tasso di fecondità elevato comporterebbe. Disgraziatamente, data l’assenza dei Rohingya tra i 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dal Myanmar, le riforme liberali conseguenti alla svolta democratica del 2011 hanno concesso ulteriore spazio alla propaganda anti-musulmana, oltretutto convogliata in modo crescente dai social media. Il governo birmano non ha mai cercato di contrastare questa deriva. Al contrario, per esempio, l’ex Presidente del Myanmar Thein Sein ha definito Wirathu una “persona nobile”, difendendolo dalle accuse di estremismo avanzategli dal Time. Inoltre, il vincolo discriminatorio dei 2 figli –  imposto nel 2013 ai Rohingya abitanti le città di Maungdaw e Buthidaung nello Stato del Rakhine – ha trovato la tacita approvazione delle autorità nazionali.

Come può nascere una persecuzione?

Ciò che di tragico sta accadendo tra Myanmar e Bangladesh ha quindi radici antiche che affondano nella complessità del rapporto storico tra la maggioranza bamar e la minoranza rohingya. Ricostruire l’evoluzione di questa tragica vicenda ci permette di riconoscere un modus operandi storicamente comune a tanti altri episodi di persecuzione. Anche in questo caso, infatti, l’obiettivo principale dei persecutori è stato quello di creare una differenza, delimitando i confini dell’identità nazionale per porre in contrapposizione un “noi” (la maggioranza bamar di fede buddhista) e un “loro” (la minoranza rohingya di fede musulmana). In questo senso, la negazione dell’identità rohingya e l’esaltazione della diversità linguistica e religiosa sono state le armi più efficaci per giustificare la violenza, convincendo la società birmana della potenziale minaccia che i musulmani rappresenterebbero per la futura integrità demografica, territoriale e culturale del Myanmar. In particolare – sulle orme di quanto già accaduto nello Sri Lanka, durante la guerra civile tra tamil e cingalesi – la religione è servita come dispositivo simbolico per alimentare e giustificare le politiche d’identità condotte dal governo. Il buddhismo, in questo modo, è stato privato della sua vocazione universale per essere ridotto a ideologia etnica, con lo scopo di fornire una comune narrazione nazionale al popolo birmano, una sorta di memoria collettiva che sta cercando di cancellare i Rohingya dalla storia del Myanmar, a qualsiasi costo.

Simone Delicati

Simone Delicati, nato a Sanremo il 2 settembre del 1996, maturità scientifica, attualmente studente al secondo anno del corso di laurea in ‘Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani’ presso l’Università di Padova, trascorrerà il terzo anno in Erasmus a Reading. Aspirante giornalista, coltiva questa sua passione su Social News. Appassionato di cinema italiano, nutre un interesse particolare per il tema delle migrazioni (circa il quale sta scrivendo il lavoro di tesi). Ex judoka, gioca a calcio ogni volta che può. Crede nei diritti umani come gli unici strumenti possibili per garantire - a chiunque - una vita dignitosa. Spera nei diritti umani come seme per le pari-opportunità. 

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