Dall’UE la nuova Direttiva per i lavoratori

Era il 1991 quando l’Unione Europea, all’epoca ancora CEE, metteva un po’ di ordine nella complicatissima materia del diritto del lavoro relativo, nello specifico, alle condizioni applicabili ai contratti e al rapporto di lavoro. Poi il silenzio, o quasi, durato più di vent’anni. Durante i quali, senza bisogno di essere esperti analisti, è piuttosto chiaro che la società europea ha subìto pesanti trasformazioni, e questo ambito non fa eccezione.

Con grande ritardo, è il caso di dirlo, la Commissione europea ha quindi ripreso le redini proponendo una nuova Direttiva in questo campo (Directive on Transparent and Predictable Working Conditions) e nel quadro del Pilastro europeo dei diritti sociali.

In estrema sintesi, la proposta – che istituisce anche una definizione unica di lavoratore a livello UE – mira a stabilire nuovi diritti per i lavoratori che si applicheranno a tutti, ma che avranno un impatto specifico nella lotta contro la protezione insufficiente delle tipologie più precarie. Secondo Eurofound, infatti, 20% dei lavoratori nell’Unione può essere classificato come “lavoro di scarsa qualità”. Si tratta di forme non standard e nuove come contratti a zero ore, lavoro occasionale, lavoro domestico, lavoro basato su voucher o i platform work come per esempio Uber. I famosi autisti-imprenditori sono, infatti, l’emblema di tutte quelle nuove figure – a metà tra autonomi e indipendenti e legate dall’appartenenza a piattaforme digitali – nate dal fenomeno della sharing economy ma che ancora sfuggono alla regolamentazione del diritto comunitario.

Il contenuto della Direttiva

Nei dettagli, la Commissione propone sei ampi diritti. Il diritto a informazioni più complete sugli aspetti essenziali del lavoro, che devono essere ricevute dal lavoratore, per iscritto, al massimo entro il primo giorno di attività. Il diritto a un limite della durata dei periodi di prova. Il diritto di cercare un impiego aggiuntivo, con il divieto di clausole di esclusività e una limitazione a quelle di incompatibilità. Il diritto di sapere quando l’attività avrà luogo, nel caso di orari molto variabili determinati da terzi, come nel caso del lavoro su richiesta. Il diritto di ricevere, a seguito di una domanda di passaggio a un tempo pieno o il trasferimento a un posto permanente, qualora ce ne sia la possibilità, una risposta scritta e motivata da parte del datore di lavoro. Il diritto, infine, a formazione gratuita e obbligatoria.

La proposta, inoltre, intende tutelare la competitività europea. La Commissione, infatti, si basa su alcuni effetti a lungo termine. Il primo: la maggioranza delle aziende nell’UE, comprese molte Piccole e Medie Imprese, fanno solo un uso marginale di forme di lavoro non permanenti. Riacquisteranno quindi parte della loro capacità competitiva nei confronti di quei datori di lavoro che hanno fatto dell’occupazione occasionale il nucleo del loro modello di business. Il secondo: la trasparenza e la prevedibilità delle condizioni di lavoro rendono i lavoratori più produttivi e innovativi. In tal senso, la proposta sostiene quello che è sempre stato il principale vantaggio competitivo dell’UE: la qualità e l’innovazione piuttosto che le carenti norme del lavoro.

Le posizioni di sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro

Anche il “dietro le quinte” merita un rapido sguardo. La Commissione mira a garantire una protezione comune per tutti i lavoratori, anche quelli non coperti da accordi collettivi, mentre ritiene che le parti sociali dovrebbero negoziare accordi – come previsto dal diritto UE – che potrebbero rispondere a specifiche esigenze nazionali o settoriali. L’Esecutivo di Bruxelles ha quindi consultato i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro per vedere se fossero disposti a un accordo tra loro. Tuttavia, le opinioni delle parti sociali sulla necessità di un’azione legislativa sono state contrastanti. Tra loro non c’era sintonia per avviare negoziati diretti. I sindacati erano, infatti, ampiamente a favore dell’aggiornamento delle norme e hanno suggerito disposizioni aggiuntive. Un’ampia maggioranza di organizzazioni di datori di lavoro si è, invece, opposta all’idea di estendere il campo di applicazione della Direttiva e di aggiungere nuovi diritti.

Le prossime mosse

Ora la palla passa a Parlamento europeo e Consiglio dell’UE che, secondo l’iter legislativo di codecisione o procedura ordinaria, dovranno approvare il documento della Commissione potendolo anche modificare in una prima ed eventualmente in una seconda lettura. Se le due istituzioni non raggiungeranno un accordo dopo la seconda lettura verrà convocato un comitato di conciliazione. Questo proporrà un ulteriore testo che, solo se accettato da Parlamento e Consiglio, rappresenterà l’atto legislativo ufficialmente adottato. Una volta quindi consolidata la versione definitiva entreranno in gioco gli Stati, che avranno al massimo due anni dall’entrata in vigore della Direttiva per adattare i propri ordinamenti a quanto enunciato dal nuovo diritto dell’Unione. Si tratta, infatti, di un atto legislativo che stabilisce un obiettivo che tutti i Paesi UE devono realizzare. Tuttavia, spetta ai singoli definire attraverso disposizioni nazionali come tali fini debbano essere raggiunti. Questo insomma è solo il primo, timido passo ma, forse, nella direzione giusta. Resta comunque da capire quale sarà la posizione soprattutto del Parlamento che, agendo in questo tipo di procedura da pari rispetto al Consiglio, potrebbe spingere la proposta verso un ampliamento del ventaglio dei diritti. Con il plauso dei sindacati, ma con un notevole aumento dei tempi di approvazione.

 

 

 

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