Dalla Tanzania al Golfo, la strada dello sfruttamento domestico

Non è, purtroppo, la prima volta che si sente parlare di lavoratori e lavoratrici dei paesi più poveri costretti a guadagnare pochi euro al giorno e in condizioni difficili. Ed è proprio su un caso simile che l’Osservatorio dei diritti umani si è concentrato ultimamente. Il suo rapporto si focalizza su tre stati: l’Oman, la Tanzania e gli Emirati Arabi Uniti e parla di come molte lavoratrici della Tanzania vengano convinte a cercare lavoro come domestiche e babysitter nelle case dei ricchi cittadini dei due paesi del Golfo, con la promessa di condizioni di lavoro favorevoli e di paghe molto superiori a quelle che potrebbero sperare nel loro paese d’origine. Arrivate a destinazione, però, spesso scoprono una situazione ben diversa da quella promessa senza poter sperare, inoltre, in una tutela legale o aiuti dai paesi coinvolti, ed è anzi la legge spesso a creare i problemi peggiori per loro. È quest’ultima infatti spesso a non tutelarli abbastanza e a garantire protezioni maggiori ai datori di lavoro, e non ai lavoratori.

Oman ed Emirati Arabi Uniti, dove le domestiche sono sfruttate

Si stimano circa 2.4 milioni di lavoratrici straniere, tra Oman ed Emirati Arabi Uniti, di cui la maggior parte provenienti dai paesi asiatici. Le lavoratrici all’inizio venivano per lo più da India, Indonesia e Filippine questi paesi, però, dopo vari problemi derivanti dai rapporti di lavoro dei loro cittadini nei due paesi del Golfo, hanno cambiato le leggi interne sul lavoro, introducendo maggiori protezioni e fissando un salario minimo. Sono arrivati addirittura alla necessità di vietare l’emigrazione per motivi di lavoro nei paesi coinvolti. L’attenzione di chi aveva bisogno di aiuti domestici quindi, per continuare ad avere manodopera a basso costo, si è spostata verso la Tanzania dove al momento provvedimenti simili non sono in atto.

Le condizioni di lavoro, secondo l’Osservatorio, sono massacranti. Esistono casi di donne che dichiarano di dover lavorare in certi casi anche 21 ore al giorno senza ferie e giorni di riposo. Il cibo inoltre è scarso o composto da avanzi o cibi avariati e sono spesso costrette a dormire sul pavimento. A tutto questo, inoltre, si sommano le continue violenze fisiche e a volte sessuali che le lavoratrici sono costrette a subire. Come se non bastasse spesso i datori di lavoro requisiscono contratti e passaporti impedendo loro il ritorno a casa o la possibilità di rimostranze, vista appunto la mancanza di un contratto che attesti il lavoro.

 

Il sistema Kafala

Il sistema kafala, usato per garantire un visto a chi voglia andare a lavorare in Oman o negli Emirati Arabi, prevede delle condizioni alquanto controverse per chi ne abbia bisogno. Questo sistema infatti prevede principalmente due punti utili a gestire gli stranieri in cerca di lavoro nei territori dei paesi di destinazioni coinvolti.

Il primo prevede che se un lavoratore, per qualsiasi motivo, decide di smettere di lavorare prima della scadenza del contratto o decide di cambiare lavoro, deve prima avere il consenso e il via libera dal primo datore di lavoro cui si era legato. Il secondo punto prevede che se questo consenso non c’è o non viene rispettato, il lavoratore può essere punito dal datore di lavoro stesso, nel modo che ritiene più opportuno. Questa punizione di solito consiste nel ridurre ancora di più la paga per i mesi successivi, violenza fisica o una richiesta di risarcimento, spesso equivalente o addirittura superiore, ai soldi guadagnati fino ad allora.

Come funzionano le agenzie di reclutamento

Le agenzie di reclutamento dovrebbero essere le realtà che aiutano le persone interessate ad emigrare per lavoro. Dovrebbero occuparsi dei documenti, dei contratti di lavoro e di fornire una preparazione di base alle persone interessate. In realtà, sono spesso state accusate di essere le prime a complicare l’intero processo

Per prima cosa, infatti, dovrebbero dare tutte le informazioni di cui i lavoratori hanno bisogno, spiegando quindi tutti i cavilli burocratici e legislativi a cui le persone vanno incontro. Ma in realtà spesso omettono grandi fette di informazione, soprattutto sui problemi con il datore di lavoro o sul cosa fare in caso di emergenza. In aggiunta, non dovrebbero chiedere soldi dai lavoratori come rimborsi spese o  di viaggio, come previsto da legge, ma la realtà è ben diversa. Inoltre, se dopo aver iniziato le pratiche con l’agenzia il lavoratore decide di non andare avanti con il processo o di recedere dal contratto prima del termine può incappare in pagamenti, come risarcimento, altissimi obbligando le persone a chiedere anche prestiti per pagare, vista la situazione finanziaria delle persone che di solito vi si rivolgono. Come se il pagamento non bastasse, spesso ricorrono anche a pressioni o a coercizioni nei confronti delle famiglie delle persone coinvolte. In un contratto esaminato dall’Osservatorio dei diritti umani, per esempio, l’agenzia obbligava ad un rimborso di 2.000$ il lavoratore che recideva il contratto prima del termine per gravidanze, “interferenze” nel matrimonio della famiglia presso cui lavorava o se faceva “false” dichiarazioni sulle condizioni lavorative. Rendendo vana qualsiasi rimostranza, anche se vera, della lavoratrice.

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La legislazione nei paesi del Golfo

Negli anni si è cercato di contrastare in qualche modo la situazione. Infatti sia nel 2004 (in Oman) che nel 2017 (negli Emirati Arabi) sono state emanate leggi per garantire a tutti i lavoratori maggiori garanzie, ma fino ad adesso non sono state applicate con successo, soprattutto per quanto riguarda i lavori domestici a cui i due disegni di legge erano principalmente diretti. Queste leggi, infatti, permettono ancora ai datori di lavoro di chiedere risarcimenti ai lavoratori per i motivi più disparati, come spese di reclutamento o di annullamento del contratto anche in caso di soprusi. Inoltre, anche le forze dell’ordine danno manforte ai datori di lavoro minacciando addirittura l’arresto per i lavoratori che denunciano le loro condizioni di lavoro o chiedono un aiuto in merito.

 

La situazione in Tanzania

Anche la Tanzania per adesso non è da meno per quanto riguarda la protezione dei suoi lavoratori. Fino ad adesso, infatti, non ha ancora provveduto a migliorare la situazione e non è ancora intervenuta con leggi ad hoc per tutelare in qualche modo i propri emigranti. Non ci sono infatti regole sul salario minimo o su di un numero massimo di ore, come, non c’è un sistema di controllo sui contratti e sulla gestione dei lavoratori.

Anche se in passato ha provato ad obbligare, senza tanti risultati, le lavoratrici a partire per i paesi del Golfo solo tramite canali ufficiali come ministeri o uffici pubblici, questi però, chiedevano alle donne un guardiano di sesso maschile: una condizioni che faceva sì che molte di loro fossero comunque costrette a ricorrere  alle vie non ufficiali.

Inoltre anche le sue ambasciate nei due paesi del Golfo non aiutano di certo. Molte lavoratrici vi si erano infatti recate per chiedere un aiuto nel trovare una soluzione alla loro situazione o per poter tornare a casa in qualche modo, visto la mancanza dei documenti. Spesso, però, le lavoratrici che si erano recate a reclamare non sono nemmeno state credute quando parlavano dei soprusi subiti, ed erano state rimandate a casa dal datore di lavoro costrette magari a ripagarlo per la loro “fuga”.

Eppure un modo per migliorare la situazione ci sarebbe, come hanno dimostrato i Paesi asiatici da cui arrivavano i primi lavoratori diretti nei paesi del Golfo. Questi hanno infatti dimostrato che, ad esempio, regole più severe con un maggior controllo nei reclutamenti, maggiori informazioni e programmi di preparazione per i lavoratori e per chi debba gestire le loro situazioni inoltre possono essere d’aiuto anche accordi presi direttamente tra i paesi coinvolti.

C’è da sperare che il rapporto dell’Osservatorio possa smuovere la situazione al più presto creando anche le condizioni per delle leggi nuove e più efficaci.

 

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