Aborto e obiezione di coscienza: due diritti in conflitto?

Due diritti che collidono ogni giorno, ancora prima che nel 1978 venisse approvata la legge 194 sulla “tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Ciò che però spesso non si considera a fondo, è che il diritto all’aborto delle donne e il diritto all’obiezione di coscienza da parte del personale medico, siano regolati e difesi da questa stessa legge.

Gli ospedali e le strutture preposte sono tenuti a garantire l’attuazione delle procedure previste e l’esecuzione degli interventi di interruzione della gravidanza. Allo stesso tempo però, l’articolo 9 prevede che il personale sanitario possa sollevare obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. Il medico obiettore si rifiuta, dunque, di prendere parte alle procedure che portano all’aborto e all’intervento stesso per ragioni personali. L’obiezione di coscienza non può essere invocata, invece, quando l’intervento del personale sia “indispensabile per salvare la vita della donna” in imminente e grave pericolo.

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Aborto: più di 2 medici su 3 è obiettore

La CGIL già nel 2013 aveva fatto ricorso al Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS), fornendo i dati aggiornati al 2011, secondo cui il 70% dei ginecologi, il 51% degli anestesisti e il 44% del personale non medico fossero obiettori di coscienza, portando molte donne a rivolgersi a strutture sanitarie in altre Regioni o all’estero, anche senza il supporto delle autorità sanitarie competenti all’interno del proprio territorio.

Il Comitato, nell’ambito del Consiglio d’Europa, dopo aver accolto il ricorso della CGIL, si era pronunciato poi con una decisione, non vincolante per l’Italia, in cui sottolineava quanto la mancanza di un’effettiva garanzia del servizio sul territorio nazionale, comportasse gravi rischi per la salute e il benessere delle donne. Rimarcava, inoltre, la forte necessità di assicurare che il diritto all’obiezione di coscienza esercitato da molti medici, non impedisse nella sostanza la possibilità di abortire, per le pazienti che volessero farlo.

Dopo quattro anni dal ricorso della CGIL al Comitato europeo dei diritti sociali, i dati, aggiornati al 2015, mostrano come la percentuale di medici obiettori di coscienza si sia tenuta stabile al 70%.

Quale coesistenza? La mobilità del personale come soluzione

La legge 194/78 prevede che il diritto della donna di interrompere la gravidanza e il diritto del medico all’obiezione di coscienza siano entrambi garantiti dallo Stato e dalle Regioni. L’obiettivo primario della politica deve essere quello di far coesistere due diritti in profonda antitesi, che portano a scontrarsi chi difende una o l’altra posizione in merito alla questione.

È la stessa legge che, ad una lettura più attenta, fornisce da sé la soluzione alla continua tensione tra questi due diritti.

L’articolo 9 prevede, infatti, la mobilità del personale, strumento efficace nel permettere ai due diritti di coesistere e di avere piena e reale garanzia. Su questo punto è necessario essere chiari: la legge non prevede che vi sia una “quota minima” di medici non obiettori in ogni ospedale, ma, nella sostanza, è prevista la possibilità per un ospedale di richiedere altro personale alla Regione che possa garantire il servizio, come ha spiegato la Ministra della Salute Beatrice Lorenzin, riguardo le polemiche sollevate in merito al concorso dell’Ospedale San Camillo di Roma per l’assunzione di medici non obiettori.

La possibilità di ovviare al problema dell’alta percentuale di medici obiettori in Italia, attraverso la mobilità del personale, non deve però rimanere “sulla carta”. Devono essere implementate politiche pubbliche in grado di dare piena efficacia a questo strumento, così da ottenere l’effettiva garanzia dei due diritti.

La possibilità di scegliere

Quale che sia la sua storia, una donna che sceglie di abortire vede davanti a sé ben poche alternative. In un percorso tutt’altro che semplice, la madre non deve restare sola.

È per questo che i consultori e le strutture socio-sanitarie hanno un ruolo indispensabile nell’essere in alcuni casi l’unico supporto, non solo professionale, ma anche psicologico, per le donne che si ritrovano a dover prendere una scelta così drastica, a prescindere dai motivi che l’hanno spinta a tale decisione.

Queste strutture devono lavorare “nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito” e devono accertarsi che vi sia il consenso della donna riguardo la presenza del padre durante le procedure previste e durante l’intervento.

È importante dunque precisare che la legge 194 del 1978 non si limita a definire le procedure per l’aborto e dunque le strutture in cui può essere eseguito l’intervento, ma affida a queste strutture, prima di ogni altra cosa, il compito di tutelare la maternità, come precisa lo stesso titolo della legge. Questo significa, come scritto all’articolo 5 che i consultori e le strutture socio-sanitarie devono aiutare la donna che chiede di abortire a “rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”.

È dunque chiaro che i consultori e le strutture autorizzate, debbano in primo luogo assistere e proteggere la donna, informarla perché la sua sia una scelta consapevole e fare tutto il possibile perché le cause che l’hanno spinta a tale scelta vengano rimosse, anche per dare la possibilità alla madre di continuare la gravidanza.

Quando questo non è possibile, è loro compito informare la donna sulle conseguenze dell’aborto, sul piano fisico e psicologico, e darle piena assistenza, che non si limiti alla mera procedura, ma anche alla piena protezione dei diritti della donna, come madre e lavoratrice.

Non deve dunque trattarsi di un “compromesso” tra due diritti, ma dell’attuazione di politiche pubbliche in grado di garantire la piena effettività per entrambi, in difesa dei diritti dei medici che scelgono di non praticare l’aborto (tenendo anche conto dell’eccessivo carico di lavoro cui sono sottoposti i medici non obiettori) e salvaguardare il diritto delle donne ad abortire: assicurare loro protezione e assistenza medica, sia che la donna decida di abortire, sia che scelga di portare avanti la gravidanza.

 

Cristina Piga

Nata a Sassari il 30 giugno del 1995, studentessa in Scienze politiche, Relazioni internazionali e Diritti Umani. Scrive fin da piccola racconti e poesie. Fa le sue prime fotografie con una vecchia analogica, senza mai più smettere di catturare attimi. Ama la cucina e la cultura orientale. Scopre Social News in ambito accademico e ne diventa lettrice, per poi fare domanda come tirocinante. I diritti umani sono espressione dell’uomo in quanto tale. Considerarli come un “concetto”, da cui possono derivare centinaia di interpretazioni e definizioni, non basta per renderli concreti ed effettivi per ogni essere umano. Lo studio dei diritti umani è essenziale per capire tutte le “facce” dei diritti umani e per difenderli nel modo più efficace possibile. 

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