L’esodo silente: quanti italiani in fuga?

Durante gli esodi italiani di fine ‘800 e del dopoguerra, le persone che ogni anno lasciavano la penisola per l’estero erano oltre 300.000. Secondo le anticipazioni sul “Dossier Statistico Immigrazioni” (IDOS) 2017 dei Centri studio IDOS e Confronti (cooperative editoriali di ricercatori nell’ambito dell’Immigrazione), stiamo tornando ad attestarci sugli stessi livelli di allora, a dimostrazione di un nuovo esodo dalla penisola. Chi sono gli italiani che oggi lasciano il Paese e perché lo fanno?

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Italia, terra di emigranti

È ottava nella classifica stilata dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.

Il problema è stato segnalato anche dall’OCSE a luglio: nel suo ultimo report sulle migrazioni, infatti, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici dichiara che l’Italia è ottava nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza di nuovi immigrati.

Al primo posto c’è la Cina, davanti a Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è subito dopo il Messico e davanti al Vietnam. In soli 10 anni l’Italia è “salita” di 5 posizioni nel ranking di quanti lasciano il proprio Paese per cercare migliori fortune altrove.

Quanti partono: i numeri dell’emigrazione

Le partenze hanno visto un incremento a partire dal 2008, anno dello scoppio della crisi economica che ha coinvolto tutta l’Europa, e hanno continuato ad aumentare negli anni a seguire: nel solo quinquennio che va dal 2011 al 2016 sono stati oltre 420.000 i cittadini italiani ad emigrare, mentre i rientri si erano attestati attorno ai 30.000 l’anno.

Diaspora che ora si attesta sulle 100.000 persone/anno, secondo l’Istat, anche se il dato rimane criticato da IDOS e Confronti, come si legge nelle anticipazioni del report: “In realtà, i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi comunali, come risulta dagli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (un passaggio obbligato per chi voglia inserirsi in loco). Come emerso in alcuni studi, rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di due volte e mezza e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero.”

Dove emigrano i giovani italiani?

Le destinazioni europee sono le più ricorrenti: vengono scelte per i tre quarti delle uscite. Sono le strade per la Germania e la Gran Bretagna ad essere le più battute, a seguire quelle per l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera. Oltreoceano si punta verso l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e l’Australia. Paesi in cui l’economia è stabile oppure in crescita, ovvero dove il mercato del lavoro offre condizioni migliori.

Si tratta, però, di flussi destinati a mutare la propria rotta, poiché le politiche sull’immigrazione stanno man mano cambiando nei diversi paesi.

In Australia, per esempio, dopo lo scoppio di un caso riguardo un giro di vite sui visti temporanei di lavoro specializzato, il governo ha apportato sostanziali restrizioni ai test di cittadinanza, che richiederanno ora una maggiore conoscenza dell’inglese e un periodo più lungo di residenza minima, portato da uno a quattro anni. Gli aspiranti cittadini, oltre ad essere sottoposti a maggiori controlli di polizia, dovranno dimostrare la propria integrazione nella società, attraverso un posto di lavoro stabile, il pagamento di tasse, l’iscrizione ad associazioni e la frequenza dei figli a scuola. Abolito il sistema precedente che permetteva un numero illimitato di tentativi di superare il test di cittadinanza: ora dopo tre tentativi falliti, il candidato dovrà attendere due anni per riprovare. Notevolmente ridotte da 651 a 436 le qualifiche professionali aventi diritto, tagliando fuori ad esempio igenisti dentali, microbiologi, macellai e giornalisti. Verrà inoltre impedito che il visto temporaneo di lavoro apra la strada a quello di residenza. 

Negli Stati Uniti, dopo il Muslim Ban, Trump ha deciso di ostacolare anche il processo di rilascio del visto H-1B, quello per i lavoratori specializzati, che ogni anno dà libero accesso negli Usa a circa 200 mila persone altamente qualificate: ingegneri hi-tech, medici e ricercatori. Stretta iniziata con l’ordine ai dipartimenti del Lavoro, della Giustizia, della Sicurezza Nazionale e dell’Interno di modificare i criteri di rilascio del visto, riducendo, come in Australia, le qualifiche ammesse.

Nel Regno Unito, a causa della Brexit, si dovranno attendere gli accordi futuri con l’UE. Ad oggi, per lavorare e vivere in Inghilterra è sufficiente avere un documento di identità e svolgere alcuni semplici pratiche. In mancanza di tali accordi, però, il trattamento dei cittadini europei sarà uguale a quello di qualsiasi altro straniero: per lavorare in Inghilterra post Brexit si dovrà dunque richiedere un permesso di soggiorno e un permesso di lavoro, coerentemente con i numeri e le disponibilità che il governo britannico andrà a stabilire di anno in anno.

Non braccianti ma futuri dirigenti

Nel 2002, il 51% di chi lasciava l’Italia aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e solo l’11,9% era laureato. Oggi invece i giovani con almeno un livello di istruzione superiore sono il 64.8%, di cui il 30% laureato. Viceversa, gli stranieri che arrivano in Italia sono sempre meno qualificati, come rilevato da Istat nel suo ultimo aggiornamento: il 47%, infatti, non ha un diploma.

Si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati. Un aumento che segnala l’incapacità del sistema lavorativo italiano di integrare questa forza-lavoro specializzata, costretta ad emigrare per evitare che la propria laurea diventi soltanto un bel quadretto da appendere al muro. Sono sempre più gli individui che una volta arrivati decidono di reinventarsi professionalmente: non sempre, infatti, le aspettative vengono rispettate.

Queste persone non sono i braccianti di “Mamma mia dammi 100 lire” costretti dalla fame: rappresentano anzi una buona fetta della futura classe dirigente del nostro Paese. Ne è consapevole anche Confindustria che ha evidenziato come la vera emergenza del Paese sia l’inadeguato livello dell’occupazione giovanile, vero tallone di Achille del sistema economico e sociale italiano.

Cervelli in fuga, investimenti perduti

I flussi migratori da/verso l’Italia differiscono dunque qualitativamente tra loro in riferimento alla composizione sociale, creando l’impossibilità di rimpiazzare gli emigranti “specializzati”.
Questo problema, se non affrontato nel più breve tempo possibile, metterà in difficoltà l’intero paese sul lungo periodo, in quanto la repentina complessificazione dell’economia richiederà individui sempre più preparati.

Non è solo una questione demografica, ma anche economica poiché ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il Paese (oltre che per la famiglia): “90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca.” come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”.

Bisogna tener presente, però, che non è tutto oro quel che luccica: andare all’estero non è sempre sinonimo di riconoscimento e fortuna. Nessuno prepara la valigia sognando di fare il lavapiatti. La prepara sapendo che altrove anche un lavapiatti se la passa meglio di molti lavori nostrani; Si parte per cercare la banalità della normalità. Uscire dall’italico loop gattopardiano di emergenza continua e programmare una vita stabile.

 

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