La via italiana con l’Africa passa anche per il Congo

Il Congo, archetipo dell’Africa, ha bisogno di una nuova leadership per costruire un futuro di opportunità

Erik Burckhardt

Quando dalla nostra parte del Mediterraneo pensiamo all’Africa, risulta impossibile costruirci un’immagine precisa di questo continente, così grande ed eterogeneo, per i più sconosciuto e per tutti affascinante e misterioso. Seppur inconsapevolmente, è, tuttavia, probabile che, se e quando ci proviamo, il nostro primo, confuso pensiero sia rivolto proprio alla Repubblica Democratica del Congo (RDC). Un Paese immenso, che ha cambiato cinque volte il suo nome e che dell’Africa è forse l’archetipo: nella sua geografia, nella sua storia e nella sua società rappresenta, a sua volta, una realtà estremamente variegata, composita e ricca di contraddizioni. Il corso del suo fiume, il Congo, non è lineare. Durante il suo viaggio lungo migliaia di chilometri attraversa una fitta foresta equatoriale, ma sfiora anche la savana e monti alti fino a 5.000 metri. Il fiume divide anche Kinshasa, la capitale, da Brazzaville, la capitale dell’altro Congo, ed è da secoli un punto di riferimento per più di quattrocento gruppi etnici che abitano la regione. La RDC detiene un tesoro immenso di giacimenti e risorse naturali, ha registrato fasi di rapida e forte crescita economica, ma il suo popolo è tra i più poveri al mondo e il suo assetto politico rimane profondamente instabile. La sua storia è complessa, così come complesso è stato il processo di decolonizzazione. L’attuale RDC ha ottenuto l’indipendenza nel 1960, ma, 57 anni dopo, il processo di stabilizzazione non si è ancora completato.

kabila congo presidente

Joseph Kabila governa il Paese dal 2001, quando succedette al padre assassinato assumendo la carica di Presidente. La carica gli fu legittimamente confermata nel 2006, quando si tennero in le elezioni più costose e più complesse della storia del mondo. Il suo mandato è stato ulteriormente prorogato, questa volta non senza contestazioni, nel 2011. È scaduto definitivamente nel 2016, ma la data delle prossime elezioni rimane incerta: Kabila ha adottato la strategia del glissement, lo scivolamento, rimanendo Presidente di fatto, in violazione del dettato costituzionale. Intanto, nel Paese si succedono i massacri. All’infinita guerra nel Kivu, la parte orientale del Paese, si è aggiunta da alcune settimane una nuova emergenza umanitaria. Quest’ultima ha luogo nel Kasai, una regione centrale. L’esercito di Kabila si sta confrontando con gruppi armati locali. Vi sono stati più di cinquecento morti nel giro di poche settimane e decine di migliaia di persone sono in fuga. Si aggiungono ai 922.000 sfollati del 2016. Le Nazioni Unite hanno calcolato che questa nuova emergenza umanitaria costerà almeno 75 milioni di dollari, necessari a rispondere ai bisogni più urgenti della popolazione, in gran parte donne e bambini, privi di accesso all’acqua ed ai servizi igienici di base. Il Congo pone, così, una nuova sfida alla Comunità internazionale. Si aggiunge a quelle di continuare a proteggere i civili e ad assistere i rifugiati nel Kivu, di convincere Kabila a consentire lo svolgimento delle elezioni entro la fine dell’anno e di garantirne il corretto svolgimento e, soprattutto, l’esito.

Le elezioni non rappresentano certo la panacea di tutti i problemi di carattere politico, economico e di sicurezza che affliggono il Paese. Tuttavia, esse rimangono prioritarie, poiché è evidente che un contesto di incertezza come quello attuale non fa che alimentare nuove esplosioni di violenze in un Paese profondamente diviso, in cui ogni qualvolta si crea un vuoto, qualcuno cerca di colmarlo. Diamanti, coltan, rame, terreni fertili a vantaggio di pochi. Povertà, tanta, per tutti gli altri. Sono questi i fattori che muovono interessi e generano conflitti a svantaggio della stabilità e della popolazione civile.

Oltre alla mediazione politica, l’impegno della Comunità internazionale per la stabilizzazione del Congo deve quindi passare anche attraverso la responsabilizzazione del settore privato, in particolare garantendo trasparenza nell’approvvigionamento dei minerali, dei metalli e delle altre materie prime di cui il Congo e altri Paesi africani sono ricchi, ma di cui i relativi cittadini sono, spesso, soltanto vittime. L’Unione Europea ha finalmente approvato un Regolamento per spezzare la catena di mercato attraverso la quale le industrie europee rischiavano, più o meno consapevolmente, di finanziare conflitti armati. Un circolo vizioso in cui l’Occidente, con una mano finanzia i conflitti, con l’altra risponde alle crisi umanitarie che ne derivano. In ogni caso, nessuno potrà mai pagare il prezzo delle sofferenze e delle violazioni dei diritti umani a danno di milioni di cittadini. Ecco perché le norme adottate dall’Unione Europea sono di fondamentale importanza. La società civile e le ONG hanno stimolato un importante lavoro di sensibilizzazione, in sinergia con il Parlamento Europeo, che ha consentito di migliorare il testo inizialmente presentato dalla Commissione Europea, e garantire davvero l’esercizio del dovere di diligenza da parte delle imprese che importano stagno, tantalio, tungsteno e oro. Dal 1° gennaio 2021 le norme interesseranno circa il 95% delle importazioni dei beni con i quali si fabbricano prodotti di uso quotidiano, quali automobili, telefoni cellulari e gioielli.

Il Regolamento contro i minerali insanguinati è un primo, significativo risultato, per il raggiungimento del quale anche il Parlamento e il Governo italiani si sono attivati con determinazione. Un comportamento diverso, d’altronde, sarebbe stato censurabile e in forte contraddizione con la nuova strategia italiana per l’Africa. Da alcuni anni, infatti, l’Italia ha finalmente riconosciuto l’interesse strategico dei Paesi africani e l’importanza di rilanciare il rapporto politico ed economico con le loro istituzioni e con quelle dell’Unione africana. Questo interesse si è tradotto in numerosi e inediti viaggi istituzionali, tra cui quelli del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e dei Presidenti del Consiglio, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Un anno fa, con la Prima Conferenza Ministeriale Italia-Africa, il rilancio delle relazioni con l’Africa si è anche formalmente affermato come priorità della politica estera italiana. Stabilità e sicurezza a vantaggio delle società africane e di quella italiana sono, infine, uno dei tre pilastri sui quali si regge la strategia italiana per lo sviluppo del continente africano elaborata dal gruppo del Partito Democratico alla Camera. Gli altri due pilastri di tale strategia, denominata Africa Act, sono crescita e lavoro e formazione e cultura. Insieme formano un pacchetto di misure finalizzate a rilanciare ulteriormente le relazioni Italia-Africa e a rafforzare la presenza italiana nel continente in una logica di co-sviluppo.

L’Africa Act è stato presentato alcuni mesi fa alla Camera e ha già contribuito a produrre importanti risultati, a partire dall’istituzione, con la legge di bilancio 2017, di un Fondo per l’Africa di 200 milioni di euro. È importante che i rappresentanti della società civile continuino a lavorare insieme ai rappresentanti politici che condividono l’obiettivo affinché, attraverso il fondo, non si finisca per privilegiare il sostegno ai partner africani nelle attività di controllo delle frontiere a discapito dei programmi per lo sviluppo sostenibile. La cooperazione con i Paesi africani per una corretta gestione dei flussi migratori rimane imprescindibile, ma è la cooperazione allo sviluppo la via da percorrere per assicurare ai giovani, nonostante le impressionanti proiezioni demografiche, un futuro di opportunità nelle loro terre.

Non è l’Italia il Paese europeo che coltiva maggiormente le relazioni con la RDC, che, infatti, non rientra tra i Paesi prioritari del documento triennale di programmazione e di indirizzo per la cooperazione allo sviluppo. Ciò non toglie che essa sia comunque beneficiaria, dal 1982, di interventi della nostra cooperazione, in particolare nel settore agricolo e sanitario, e che l’Italia si sia distinta negli anni come uno dei partner più determinati nella fornitura di aiuti umanitari. Il nostro aiuto allo sviluppo in Congo passa, inoltre, per l’Unione Europea, che ha impegnato per la cooperazione bilaterale più di mezzo miliardo di euro in cinque anni.

Non meno rilevante è l’impegno politico e diplomatico. Anche nell’attuale braccio di ferro tra Kabila e le opposizioni, l’Unione Europea e Italia si sono adoperate, al fianco della Conferenza episcopale nazionale del Congo, per il raggiungimento dell’accordo globale e inclusivo del dicembre scorso, spendendosi per elezioni serie e credibili entro la fine di quest’anno e salvando così l’unità del Paese. Questo è costato alla nostra diplomazia qualche attrito con il Governo di Kabila, ma rappresenta un impegno imprescindibile e coerente con il disegno di favorire lo sviluppo nel continente africano proprio a partire dalla stabilizzazione delle istituzioni che ne governano i Paesi. Per funzionare hanno bisogno di essere servite lealmente da una nuova leadership africana. Per questo l’Africa Act dedica una parte importante ai programmi di scolarizzazione, alle relazioni interuniversitarie e ad ulteriori misure volte a favorire la diffusione dell’orgoglio africano per la storia, l’arte, la letteratura e le variegate culture del continente.

Nella sua travagliata storia post-coloniale, il Congo è stato guidato e rappresentato perlopiù da una cleptocrazia sfrontata, come quella del dittatore Mobutu, e da leader sanguinari come Jean-Pierre Bemba, il primo ad essere stato condannato dalla Giustizia internazionale per l’utilizzo di stupri sistematici come arma di guerra. Ancora una volta, la RDC rappresenta un caso archetipico di quanto in Africa servano forti investimenti per lo sviluppo del capitale umano capace di costruire e operare in un assetto istituzionale democratico. Purtroppo, invece, anche l’opposizione congolese del Rassemblement anima di sovente dispute interne che giovano soltanto a coloro i quali intendono evitare lo svolgimento di elezioni democratiche.

Nei pochi mesi in cui governò il Congo appena divenuto indipendente, prima di essere assassinato, Patrice Lumumba chiese ai suoi concittadini di “dimenticare i conflitti tribali che ci sfiniscono” e che “sono… concentrati nelle regioni in cui sono maggiori le nostre risorse minerarie”. 57 anni dopo, queste parole sono ancora attuali e rappresentano l’unica speranza per la stabilizzazione del Congo, per il futuro dell’Africa e per l’equilibrio del mondo.

Erik Burckhardt

@erikburckhardt

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