Schiave d’Italia, lo sfruttamento lavorativo e sessuale delle donne romene in Sicilia

La produzione ortofrutticola ragusana costituisce una delle più importanti realtà dell’economia siciliana e di tutto il Meridione, oltre a rappresentare una delle principali fonti di provenienza di prodotti agricoli non confezionati a livello nazionale. Grazie al clima favorevole e a tecniche di coltivazione avanzate, Ragusa rifornisce, anche fuori stagione, di ortaggi i supermercati d’Italia ed Europa. La manodopera è composta per lo più da migranti, molti di essi provenienti in particolare da un Paese dell’est Europa: la Romania. Per soddisfare l’elevata domanda, tuttavia, romeni e romene lavorano a ritmi incessanti nei campi e nelle serre, sottopagati e sfruttati, e proprio le donne diventano vittime di un’ulteriore forma di abuso. Quello sessuale.

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Per venti euro al giorno: il lato oscuro del lavoro nei campi

“Il distretto del doppio sfruttamento: agricolo e sessuale”. Così L’Espresso descriveva la realtà ragusana, quando per primo denunciò la situazione in un’indagine pubblicata nel settembre 2014. Le lavoratrici romene arrivano in Italia alla ricerca di un impiego. Molte divengono badanti, molte altre finiscono a lavorare alle dipendenze di qualche signore nella campagna siciliana. È una soluzione che scelgono soprattutto le madri, poiché sarebbe per loro impossibile tenere con sé i figli se vivessero a casa di un anziano. Per tenere unita la famiglia, quindi, scelgono i campi, e proprio nei campi si consuma la loro tragedia. I padroni mettono a loro disposizione cascine fatiscenti e isolate in cui vivere (a volte trattenendo parte del loro stipendio a mo’ di affitto). Lavorano fino a dodici ore al giorno, sotto il sole e nel caldo delle serre, prive di garanzie o assicurazioni in alcun genere e in cambio di un compenso (raramente oltre venti euro al giorno) ben al di sotto di ciò che sarebbe accettabile, ma comunque più alto dei duecento euro mensili che potrebbero guadagnare se tornassero a casa, in Romania. Per i soldi e per sostenere economicamente la propria famiglia, dunque, le lavoratrici romene sopportano la fatica e accettano qualsiasi trattamento, anche i più degradanti.

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Il prezzo da pagare: abusi, festini, aborti

L’associazione Proxima, organizzazione che si occupa di diritti dei migranti, stima che più della metà delle donne romene impiegate nei campi subisce abusi sessuali. Vengono costrette dai padroni che le ricattano, minacciando di licenziarle e cacciarle via nel caso in cui rifiutino o tentino di ribellarsi. O peggio ancora, minacciano di prendersela con i loro figli, lasciandoli senza acqua da bere o da mangiare. In molte aziende agricole, poi, vengono organizzati festini, in quelle che divengono, di notte, vere e proprie discoteche di campagna. Agli invitati, i padroni offrono carne, alcool e donne. Nei loro racconti, le vittime parlano delle violenze che ha dovuto subire: c’è chi è stata picchiata, chi si è vista puntare contro una pistola. Chi ha provato a scappare e a denunciare i trattamenti sofferti non è stata poi più in grado di trovare un nuovo lavoro. Per questo motivo, la maggior parte non osa parlare e continua a vivere nel silenzio.

Un dato particolarmente allarmante, considerando che il numero di romene presenti nel territorio è di poche migliaia, riguarda gli aborti registrati nelle strutture locali, sempre superiori ai cento all’anno (nel 2015 se ne sono registrati centodiciannove). Costituiscono quasi il venti percento del totale della provincia, ma il dato risulta essere comunque sottostimato. Molte di loro non passano per i canali legali e pubblici, preferendo ricorrere a metodi tradizionali, casalinghi, oppure, anche a causa dell’elevato numero di medici obiettori di coscienza, tornano ad abortire nel loro Paese d’origine.

 

Oltre le parole, pochi fatti: a distanza di anni lo sfruttamento continua

Don Beniamino Sacco, parroco di Vittoria, in provincia di Ragusa, fu il primo a denunciare la situazione. Grazie al suo impegno costante, nonostante le minacce e le ritorsioni, un padrone sfruttatore è finito in carcere. L’articolo apparso L’Espresso nel settembre 2014 portò la questione all’attenzione dell’opinione pubblica, suscitando sdegno e reazioni anche tra le personalità politiche. I governi di Italia e Romania hanno deciso di intervenire congiuntamente e collaborare. È stata avviata un’indagine conoscitiva da parte della Commissione per i Diritti Umani del Senato, si sono convocati i sindaci e le autorità locali per discutere ed elaborare piani d’azione. Anche la stampa internazionale si è occupata della questione. Ma, a distanza di anni, il problema persiste. Una nuova inchiesta de L’Espresso, pubblicata all’inizio di giugno, mostra che la situazione, nonostante le promesse delle istituzioni, non è cambiata e che, forse, è addirittura peggiorata. Le donne romene continuano a vivere nell’isolamento, a lavorare in condizioni inumane e a subire violenze di ogni tipo. I “festini agricoli” sono diventati ancora più popolari, con tanto di foto che vengono pubblicate sui social network.

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Ciò che le organizzazioni che si occupano di diritti umani denunciano è il silenzio che avvolge la questione. In molti, tra gli abitanti, sanno. In pochi parlano. Alcuni negano addirittura l’esistenza del fenomeno. Data la crisi e le difficoltà che affliggono la regione, in genere si preferisce lasciar correre, accettare il lato oscuro del lavoro nei campi, consapevoli che, senza manodopera straniera e a basso costo, l’economia si bloccherebbe. Il prezzo che le donne romene devono pagare affinché la macchina continui a funzionare, però, resta troppo alto. L’aiuto delle associazioni di volontariato, per quanto prezioso, non è sufficiente. È necessaria un’azione incisiva che sradichi il problema e vinca la sostanziale omertà che da anni concorre a nascondere e coprire i comportamenti illeciti di molti padroni terrieri. Ed è fondamentale che venga offerto un concreto sostegno alle vittime e che esse vengano messe nella condizione di denunciare i loro oppressori senza rischiare di mettere in pericolo se stesse o la propria famiglia. In tutto questo, comuni ed associazioni locali non possono essere lasciati soli.

 

Alessia Biondi

Nata a Parma nel 1994 e residente a Vicenza, attualmente studio Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani all’Università di Padova e collaboro con SocialNews come parte di un progetto inerente al mio programma di studi. Da sempre appassionata di scrittura, lingue e viaggi ho tenuto per diversi anni un mio blog personale su questi temi. Mi interesso di diritti umani, storia e attualità e coltivo una grande passione per l’Estremo Oriente e le sue culture. 

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