“This Is Not Paradise”, la schiavitù delle lavoratrici migranti in Libano

In Libano, 250.000 donne migranti vivono e lavorano come collaboratrici domestiche alle dipendenze delle famiglie locali. Il rapporto di lavoro è gestito secondo il sistema della Kafala, che lega quasi indissolubilmente la donna al padrone e non consente di interrompere o lasciare l’impiego senza il suo permesso.

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Funziona così: numerose agenzie di reclutamento fanno da tramite tra le lavoratrici, solitamente provenienti da Paesi poveri, quali Filippine, Bangladesh, Sri Lanka, Etiopia, e le famiglie libanesi in cerca di una domestica. Vengono firmati contratti, in genere della durata di due anni, che garantiscono salari minimi e che variano in base alla nazionalità (le filippine ricevono i compensi maggiori, in genere appena 500 dollari al mese). La donna consegna i propri documenti d’identità al nuovo padrone, che detiene così su di lei un controllo pressoché totale. A molte viene impedito di uscire e di avere tempo libero e finiscono per lavorare anche oltre dodici ore al giorno. Senza contare che, se dovessero sorgere problemi con il datore di lavoro, esse non potrebbero andarsene, poiché lasciando la casa si troverebbero in una situazione di illegalità e rischierebbero il carcere. Gli abusi, le violenze e lo sfruttamento sono pertanto all’ordine del giorno. Si tratta di una situazione drammatica e in gran parte sconosciuta nel nostro Paese, su cui il documentario This Is Not Paradise, prodotto nel 2014 da Gaia Vianello e Lisa Tormena, ha cercato di far luce e di attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica.

This is not paradise IT – Trailer from Sunset Produzioni on Vimeo.

Da cosa è nata l’idea di produrre un documentario su questo tema?

“L’idea del documentario è nata durante la mia permanenza in Libano come cooperante internazionale – racconta Gaia Vianello, co-regista del documentario. Una delle prime cose che mi hanno colpita appena arrivata è stata la presenza capillare e diffusa di donne molto giovani, di origine subsahariana o asiatica, che, spesso vestite in livrea, si accompagnavano a famiglie libanesi. Le vedevo ovunque: nei ristoranti, in un tavolo in disparte, aspettando che la famiglia finisse di cenare; nei ricchi resort sulla spiaggia, impegnate a controllare i bambini sul bagnasciuga, mentre moglie e marito prendevano il sole; nei parcheggi dei supermercati, cariche di borse della spesa, intente a seguire le “madame” verso le loro macchine; e, spesso, affacciate ai balconi di casa, durante una breve pausa dal lavoro domestico, a guardare fuori con occhi non molto felici. Ho cominciato così ad interessarmi alla questione, scoprendo che il fenomeno ha una portata enorme: si stima una presenza di duecentocinquantamila collaboratrici domestiche migranti in un paese che conta appena quattro milioni e mezzo di abitanti, senza contare tutte coloro che passano per vie illegali e che è dunque difficile conteggiare.”

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È stato difficile trovare donne disposte a raccontare la propria storia?

“Il lavoro che ho svolto in Libano ha permesso di entrare in contatto con diverse organizzazioni non governative e associazioni che si occupano di diritti dei migranti, quali Kafa, Caritas Lebanon, Migrant Workers Task Force e Anti-Racism Movement, solo per citarne alcune, e queste a loro volta mi hanno dato la possibilità di conoscere alcune donne e ragazze migranti, impegnate nelle maggior parte dei casi nel lavoro domestico. Ciononostante, la difficoltà maggiore che abbiamo riscontrato durante le riprese del documentario è stata proprio quella di riuscire a portare queste donne a raccontare le proprie storie davanti ad una telecamera: quasi tutte rifiutavano per paura di ritorsioni da parte del datore di lavoro. Le donne che abbiamo intervistato sono esempi di lavoratrici domestiche che sono riuscite ad emanciparsi: vuoi perché sono riuscite a portare a termine il proprio contratto, solitamente della durata di due anni, e quindi a ritornare in possesso dei propri documenti, vuoi perché hanno trovato, lungo il loro percorso, datori di lavoro che le hanno assunte con condizioni di lavoro dignitose.”

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Il vostro documentario ha ricevuti numerosi riconoscimenti: quali reazioni ha suscitato?

“Il documentario ha avuto paradossalmente una diffusione ed un’accoglienza migliore all’estero che in Italia, forse perché qui c’è la convinzione diffusa che queste problematiche siano molto lontane dal nostro quotidiano, e che quindi non ci riguardino. Questo, però, dimenticandosi delle condizioni in cui vivono migliaia di donne, che sono venute in Italia come badanti o come donne di servizio, il cui trattamento non è sicuramente equiparabile a quello vigente in Libano, perché fortunatamente qui esiste una legislazione che in qualche modo cerca di tutelare la categoria, e tuttavia in molti casi risulta essere pericolosamente simile. Ci piacerebbe molto, a me e a Lisa Tormena, co-regista del film, che, nonostante il documentario risalga a qualche anno fa, possa continuare a girare per stimolare un dibattito sul tema.”

Come pensate stia cambiando la situazione delle lavoratrici domestiche in Libano? Quali passi è necessario compiere e quali sono gli ostacoli maggiori?

“Nel 2012 un video divenuto virale su Youtube ha di fatto cambiato l’approccio dell’opinione pubblica nei confronti delle lavoratrici domestiche in Libano: Alem Dechasa, giovane madre etiope andata a lavorare in Libano per sostentare la propria famiglia, recatasi davanti all’ambasciata etiope per chiedere aiuto, viene brutalmente presa di peso dal titolare dell’agenzia di reclutamento che l’aveva portata nel Paese e trascinata in macchina. Due giorni dopo questo fatto, ripreso con un telefonino e caricato on-line, la donna si suicida nell’ospedale presso cui era stata ricoverata. Quest’evento ha puntato i riflettori dei media sulla questione, scuotendo le coscienze dei libanesi, in particolare delle giovani generazioni, che hanno cominciato a costituirsi in associazioni a sostegno delle lavoratrici migranti, con lo scopo di garantire loro un’esistenza dignitosa e di far pressione sulle autorità per un cambiamento radicale della legislazione. Nel 2015, con il sostegno dell’ILO (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) e del sindacato libanese FENASOL, è nato il primo sindacato delle lavoratrici migranti, che tuttavia, ad oggi, non è ancora stato riconosciuto dal governo. È necessario dunque un intervento su due diversi piani: quello della sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla questione e un’azione di lobbying presso le istituzioni centrali libanesi, per l’abolizione, o perlomeno la modifica, del sistema della Kafala, che regola la migrazione delle donne di servizio in Libano.”

 

Infine, quale significato ha il titolo del documentario, This is not paradise?

This is not paradise riprende le parole di una donna di servizio migrante in Libano durante un workshop organizzato dall’associazione Anti-Racism Movement, dove le era stato chiesto di scrivere un messaggio per le sue connazionali che desideravano partire per lavorare come housemaids in Libano: questo non è il paradiso.”

 

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