Arabia saudita, nuovo difensore dei diritti delle donne?

Il 19 aprile 2017 l’Arabia Saudita è stata scelta ufficialmente tra i membri della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (UNCSW) per il quadriennio 2018-2022. Questa commissione, attiva dal 1946, si autodefinisce come “il principale corpo globale intergovernativo, esclusivamente dedicato alla promozione della parità di genere e al rafforzamento della posizione della donna.” La scelta arriva direttamente dal Consiglio Economico Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC), organo che, tra le svariate attività, si occupa anche della membership dell’UNCSW.

Tra le novità, è prevista l’entrata di tredici nuovi membri, tra cui Algeria, Comoros, Congo, Ghana e Kenya (tra gli stati africani); Iraq, Giappone, Repubblica di Corea, Arabia Saudita e Turkmenistan (tra gli stati dell’Asia e del Pacifico); Ecuador, Haiti e Nicaragua (tra gli stati dell’America Latina e dei Caraibi). Sebbene la maggior parte di questi non eccellono nel rispetto dei diritti umani e della parità dei sessi, ciò che stupisce maggiormente è la presenza del Regno dell’Arabia saudita. Questa monarchia assoluta islamica è, infatti, contestata frequentemente dall’opinione pubblica mondiale per il mancato riconoscimento di alcuni diritti fondamentali e per il ruolo ancora marginale ricoperto dalle donne nella società. “Eleggere l’Arabia Saudita tra i membri che devono occuparsi di proteggere i diritti delle donne – ha commentato Hillel Neuer, direttore della ong UN Watchè come mettere un piromane a capo dei pompieri della città. È assurdo”.

arabia saudita diritti donneL’Arabia Saudita è effettivamente una scelta così errata?

Nell’ultimo decennio, lenti ma progressivi miglioramenti hanno aperto il percorso verso l’emancipazione delle donne saudite. Le innovazioni, per così dire, più “radicali”, sono avvenute nell’ambito politico quando nel 2009, sotto il regno di Abdullah bin Abdulaziz al-Saud, Norah al-Faiz venne nominata vice ministro dell’educazione, una delle più alte cariche mai raggiunte da una donna.

Inoltre, nel 2013, lo stesso sovrano permise a una trentina di donne di occupare dei seggi nel Consiglio della Shura, organo consultivo con funzioni limitate alla proposta di progetti di legge che solo il re può approvare.

Continuando sempre sulla stessa strada, alle donne è stato concesso, nel 2015, di votare ed essere elette alle elezioni municipali. Nonostante siano riuscite ad ottenere solo 20 dei 2.100 seggi municipali a disposizione, è stata e sarà  un’ottima opportunità per le donne di far sentire la propria voce.

Saudi Arabia votes in first female councillor after women get the right to vote
Si è recentemente aperto uno spiraglio di libertà anche nel mondo sportivo. Infatti, nel 2016, l’Autorità generale dello sport ha annunciato  la creazione di un dipartimento femminile e ben quattro donne hanno rappresentato l’Arabia Saudita ai giochi olimpici di Rio affiancando la ‘’consueta’’ presenza maschile.

 

Joelle Tanguy, direttrice dello Strategic partnership Division of UN Women, ritiene che questo paese abbia fatto dei notevoli passi in avanti negli ultimi anni, iniziando a considerare il rafforzamento delle donne nell’economia un necessario fattore di sviluppo. Nel suo discorso, tenutosi nel corso della 61esima sessione dell’UNCSW a New York, si considera “lieta di aver sentito che recentemente Reem Nashar è diventata amministratrice delegata della banca saudita Samba; che Sahar Al-Suhaimi è alla guida della borsa saudita (Tadawul); e che Latifa Al-Sabhan è diventata Direttore finanziario della banca nazionale araba.” Oggi ci sono infatti molte ragazze che frequentano l’università – ovviamente separatamente dai maschi, eccetto per quanto riguarda la King Abdullah University of Science and Technology fondata dal re Abdullah – e più laureati di sesso femminile rispetto a quello maschile.

 

L’onda cavalcata dal re Abdullah sembra dunque non essersi ancora esaurita. Infatti, leggendo la corposa agenda saudita per il 2030, sembra che anche le donne abbiano un ruolo nella costruzione di un’ Arabia Saudita sempre più florida: “Insieme noi continueremo a costruire un continente migliore, realizzando il nostro sogno di prosperità e svelando il talento, il potenziale e la dedizione dei nostri giovani uomini e donne.”

 

E allora perché la nomina ha suscitato così tanto scalpore?

Sebbene questi cambiamenti siano incoraggianti, il contesto sociale in cui si trovano a vivere le donne saudite è ancora molto rigido. Anche piccoli gesti che fanno parte della nostra quotidianità, come guidare un’automobile, possono tramutarsi in questioni di vita o di morte. La patente di guida è, infatti, una prerogativa maschile, nonostante il divieto non sia incluso nella Sharia.

L’opinione pubblica mondiale ha espresso più volte il proprio rammarico, sostenendo in vari modi le continue proteste e campagne mediatiche delle attiviste saudite che nella maggior parte dei casi si esauriscono nel peggiore dei modi, come la ‘’Women2drivecampaign’’ organizzata nel 2013, al termine della quale l’attivista Shaima Jastania fu arrestata e condannata a dieci frustate. Quando lo storico Saleh al-Saadoon fu interrogato al riguardo giustificò ironicamente questo divieto sulla base di una preoccupazione nei confronti  delle donne, che rischiano di essere stuprate ai margini della strada nel caso la macchina si rompesse.

arabia saudita vignetta donne

Il problema risulta, dunque, radicato nella mentalità saudita, per cui la posizione della donna è talmente sottovalutata da far persistere ancora l’antico sistema di “tutoraggio maschile”. Sempre in accordo con la Sharia, è previsto infatti che le donne debbano rivolgersi a un “guardiano maschio” (può essere un padre, un fratello, un marito o un figlio) quando si tratta di ottenere l’approvazione su questioni essenziali quali cure mediche, l’apertura di un conto bancario, il lavoro, il matrimonio, l’iscrizione all’università, l’emissione di documenti ufficiali e l’uscita dal Paese.

A quasi due settimane dall’entrata nella Commissione della Nazioni Unite sullo status delle donne, l’attuale re Salman ha cercato di allentare questa pratica, riconoscendo alle donne la libertà dal consenso maschile quando si tratta di ottenere un posto di lavoro pubblico, iscriversi all’università o accedere a cure mediche.

Ufficialmente nessuna di queste azioni è proibita alle donne, ma la consuetudine richiede l’approvazione del marito e resta il fatto che la dichiarazione del re rimane alquanto contraddittoria e non chiarisce i punti sostanziali. Tra le altre varie limitazioni delle libertà personali, come l’obbligo di camminare in pubblico avendo solo le mani e gli occhi scoperti e di non poter interagire con altri uomini al di fuori della famiglia, è opportuno ricordare anche come quattro delle figlie del re precedente siano segregate sin dalla tenera età nel palazzo reale senza documenti e senza possibilità di uscire o di spostarsi dal Paese.

Incremento qualitativo o puro gioco di interessi?

È pur sempre vero che, come afferma Helen Clark, capo del “Programma Sviluppo” delle Nazioni Unite: “È importante supportare coloro che nel Paese stanno lavorando per cambiare la condizione delle donne”. Tuttavia analizzando l’ultimo rapporto sul Global Gender Gap 2016, un report annuale elaborato dal Forum economico mondiale che quantifica il livello della disparità di genere nel mondo, ci si accorge che l’Arabia Saudita occupa il 141° posto su una lista di 144 stati. Un risultato che sembra far guadagnare più richiami e proteste piuttosto che un posto in una Commissione che si occupa della promozione e dell’empowerment femminile.

 

Some things can't be covered. First very powerful official #Saudi #campaign against #women abuse.

 

Una posizione ottenuta con ben 47 voti segreti su 54, quindi, per forza di cose, anche sostenuta da almeno cinque degli stati europei. Sorge quindi spontanea la domanda, già vivacemente discussa nel 2015 con la nomina di presidente del Gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dell’ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad, se questa candidatura sia effettivamente un incoraggiamento al miglioramento della situazione femminile o semplicemente frutto di qualche compromesso politico o favoritismo economico.

 

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