Je So’ Pazzo: l’ospedale psichiatrico occupato diventa centro di cultura e solidarietà

Nel marzo 2015 decine di studenti, lavoratori e attivisti hanno occupato l’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario “Sant’Eframo”, nel centro di Napoli, da anni lasciato al degrado e all’incuria. Si sono rimboccati le maniche e hanno sistemato la struttura per poterla riconsegnare alla città e ai suoi abitanti. Hanno ribattezzato il posto Je So’ Pazzo, dal titolo di una canzone di Pino Daniele, per simboleggiare quel po’ di follia che ci vuole per intraprendere un progetto così. A due anni di distanza, l’ex OPG è un centro attivo sui fronti più disparati: dall’aggregazione dei giovani al sostegno a quanti si trovino in difficoltà economiche, dall’assistenza ai migranti alla tutela dei lavoratori. Il tutto all’insegna della solidarietà, dell’aiuto reciproco, del volontariato. Una realtà fiorente, con già tanti successi alle spalle e importanti propositi per il futuro. Abbiamo incontrato alcuni dei ragazzi che animano l’ex OPG per farci raccontare, da vicino, questa singolare realtà.

je so' pazzo napoli

Come è iniziato il vostro progetto, da chi è partita l’idea e con quali obiettivi? Insomma: chi siete, cosa fate e perché?

Je So’ Pazzo è stato occupato nel marzo del 2015, ma come attivisti e gruppo politico siamo attivi da molto prima: ci siamo formati nel 2008 come Collettivo Autorganizzato Universitario (CAU-Napoli) e Clash City Workers, cui si sono aggiunti nel 2010 gli Studenti Autorganizzati Campani, movimento attivo nelle scuole superiori. Col passare del tempo, tuttavia, ci siamo resi conto che la situazione stava cambiando e le formazioni che avevamo non erano più sufficienti: da un lato, la crisi ha modellato la vita di molte persone, studenti e lavoratori, costretti a ritmi sempre più pressanti; dall’altro lato, è emersa una richiesta di aiuto nel soddisfacimento dei bisogni materiali, di avere risposte concrete anche nelle cose più piccole e quotidiane che la crisi stessa, la privatizzazione selvaggia e i tagli alla spesa pubblica avevano eliminato. A partire dal 2012, poi, c’è stata un’accelerata dei movimenti sociali in Europa e nel mondo. L’esperienza di Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, i Paesi del Medio Oriente e Nord Africa che si sono ribellati contro i loro governi, ci hanno fatto riflettere sulla necessità delle persone di avere un riferimento politico serio e credibile. Ci hanno mostrato che la voglia di lottare esiste ancora. Ci sono forte insoddisfazione e rabbia in ogni angolo del mondo, ma sembra che nessun soggetto riesca a raccoglierla e a direzionarla. L’esigenza di uscire dal piano studentesco, universitario e cittadino la sentiamo anche noi e abbiamo voglia di metterci in gioco, ma sentiamo anche il bisogno di parlare a molte più persone che per i motivi più vari non vivono gli spazi ed i luoghi in cui abbiamo operato fino all’occupazione.

 

Vi sono state resistenze o il progetto è stato accolto positivamente da tutti?

Materdei, il quartiere popolare nel centro di Napoli in cui ci troviamo, ci ha accolto benissimo. Da subito si è innescato un forte meccanismo di solidarietà, reciprocità, fiducia e interesse nel nostro progetto. Ovviamente non è andata giù proprio a tutti: la Polizia Penitenziaria, gestore del posto, ha minacciato fin dal primo momento di venire a sgomberarci. La nostra determinazione e il giro molto ampio di persone che già frequentavano l’ex OPG ha sicuramente fatto da deterrente a uno sgombero coatto.

 

Avete occupato un ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario: come mai proprio un edificio di questo tipo?

Innanzitutto, l’OPG di Sant’Eframo era abbandonato dal 2007: ci sembrava assurdo che un posto così grande – parliamo di circa novemila metri quadri – al centro di una città in cui manca tutto (spazi di aggregazione, piazzette tranquille dove possano stare i bambini) fosse lasciato all’incuria. Inoltre, come gruppo politico, siamo sempre stati sensibili ed attivi, per quanto possibile, nell’ambito della salute mentale, a come viene affrontato il problema nell’ambito medico ed accademico. Questa struttura, così imponente nel centro città, ci sembrava l’emblema di un certo tipo di “cultura della psichiatria”: un luogo di reclusione, di esclusione sociale, di repressione violenta. Doveva quindi a nostro avviso tornare urgentemente a vivere in un senso totalmente opposto. Con altri attivisti, psichiatri, pazienti e familiari abbiamo preso parola fin dai primi giorni su questo problema: a fine marzo del 2015 sarebbe iniziata la dismissione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in tutta Italia, ma tante erano già e sono state successivamente, in questi due anni, le ombre e le contraddizioni di questo processo che volevamo denunciare. Insomma, ritenevamo fosse il momento migliore per aprire un dibattito franco su questo tema e da allora non ci siamo più fermati: attraverso iniziative di sensibilizzazione, incontri tematici, un corteo, spettacoli teatrali, l’apertura di uno Sportello di Ascolto nei nostri spazi, abbiamo dato vita a un discorso alternativo e un intervento concreto sul problema, per il miglioramento delle condizioni di chi soffre di una qualsiasi forma di disagio psichico.

 

Com’era la struttura prima che arrivaste voi, in che condizioni si trovava? E come l’avete trasformata?

L’ex OPG, oggi Je So’ Pazzo, come posto era un disastro: erbacce, rifiuti, polvere. Tutto era sommerso, l’intonaco cadeva a pezzi… per darvi un’idea dello stato di degrado, in uno dei cortili c’è un bel pozzo che abbiamo scoperto solo dopo tre giorni di lavori, quando siamo riusciti a tagliare tutti i rovi! Alle forze della natura si erano aggiunte anche forze “umane”, che negli anni avevano provveduto a rubare tutto il rubabile: sanitari, tubi, cavi dell’elettricità, porte, armadietti, perfino pezzi di mattonelle… insomma non era un bello spettacolo. Comunque non ci siamo lasciati scoraggiare e abbiamo cominciato a sistemare le varie zone. Un grande aiuto, anche questa volta, è venuto dal quartiere: tanti ragazzi, ma anche tanti pensionati, sono venuti a pulire, pitturare, portarci acqua e cibo per rifocillarci.

Che genere di attività offrite e a chi sono destinate?

Le attività sono destinate a tutti: non facciamo una “selezione”, sappiamo già che chi si rivolge a noi è spesso un proletario, una persona che non ha grandi possibilità né alternative. Le attività offerte sono di vario tipo: da quelle ludiche e ricreative (corsi di danza, di pittura, di disegno, di lingua inglese e francese, la palestra, il calcetto, l’arrampicata sportiva, il laboratorio teatrale) e attività che rispondono a delle esigenze più specifiche (lo sportello medico con medici di medicina generale, pediatri, ginecologi, lo sportello nutrizionale, quello di ascolto sulla salute mentale, contro la violenza di genere, di assistenza legale per i lavoratori, per i migranti, la scuola d’italiano, il doposcuola per i bambini e ragazzini del quartiere). Tutte le attività sono gratuite, sia per “l’utenza” che per chi li tiene: tutti devono entrare in un’ottica di reciprocità e mutualismo, quindi, se si viene al corso di tango, magari si viene anche a dare una mano a imbiancare la stanza del doposcuola o al bar durante le serate di autofinanziamento.

 

Siete in prima fila anche nell’aiuto ai migranti: in che modo?

Napoli è una città di recente migrazione e spesso è una città di transizione. Nonostante ciò nel corso dell’ultimo anno questa questione è esplosa, soprattutto perché c’erano circa duemila permessi di soggiorno bloccati. Anche in questo ambito promuoviamo un’azione che si muove su più livelli. Con lo Sportello Legale cerchiamo di rispondere alle tante problematiche che riguardano l’ottenimento del permesso di soggiorno e della residenza, l’accesso al sistema sanitario pubblico, l’iter per la richiesta di asilo. Su questi temi stiamo ottenendo tante piccole vittorie. Da circa un anno è nata anche una scuola di italiano per migranti, che ogni settimana ospita oltre un centinaio di persone. Sono tutte attività che, oltre a risolvere concretamente dei problemi, ci permettono anche di interagire, conoscere e costruire un rapporto con i migranti. C’è poi il livello di mobilitazione e di piazza: su questo piano sono stati fatti vari presidi, cortei, azioni per cercare di fare pressione sulle istituzioni, far emergere il problema sul piano cittadino e – perché no – attirare anche l’attenzione di qualche giornale. Infine, c’è il piano del “controllo popolare”: un meccanismo di partecipazione e vigilanza sulle istituzioni più prossime, in particolare sui Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), dove abbiamo fatto controlli a sorpresa per verificare che tutte le regole fossero rispettate e in che condizioni vivessero i migranti. Quello dell’immigrazione è diventato un business, col quale molti italiani prendono ingenti somme dallo Stato – che lascia fare – senza poi corrispondere adeguati servizi agli immigrati. Il razzismo istituzionale, il pessimo funzionamento degli uffici, gli abusi, fanno sì che spesso a queste persone sia negato ogni diritto. In seguito ai controlli effettuati, abbiamo presentato delle relazioni al Comune e alla Prefettura, e abbiamo fatto in modo che le promesse fatte da questi enti si trasformassero in atti e che non si perdesse tutto nei meandri della burocrazia. Il risultato? Non solo abbiamo aiutato alcune persone singolarmente, ma le nostre pressioni hanno contribuito anche a far sbloccare i duemila permessi di soggiorno di cui dicevamo.

Come si finanzia la vostra organizzazione? Come è possibile sostenere i progetti?

Siamo totalmente autofinanziati: facciamo qualche serata, concerti, cene, proiettiamo le partite del Napoli (che come immaginerete sono degli eventi qui!), vendiamo magliette e gadget, accettiamo contributi di chi vive lo spazio o di chi ci vuole sostenere a distanza. A dicembre abbiamo fatto partire una campagna di crowdfunding per aprire la mensa popolare, lo sportello ginecologico e pediatrico e ricostruire il teatro popolare. Non solo siamo riusciti a raggiungere la cifra che ci eravamo preposti, ma abbiamo anche già aperto due spazi su tre. Se si vogliono sostenere i progetti a distanza, si possono acquistare una maglietta o una borsa, contattandoci tramite la nostra pagina Facebook “Ex-OPG Occupato Je so’ Pazzo”. Oppure, se passate per Napoli, venite a prendere una birra, vi facciamo fare un giro e ci lasciate un contributo.

 

Che impatto ha avuto la nascita di una simile realtà sul quartiere e sulla comunità in cui si è inserita?

Crediamo, fino ad ora, di essere riusciti a fare ancora poco rispetto a quello che potremmo, ma soprattutto che dovremmo fare. La gente del quartiere viene e partecipa. Sicuramente abbiamo aiutato a tante persone che non avevano modo di accedere a numerosi servizi o che vivevano in situazioni precarie e svantaggiate. Ma sappiamo che è ancora troppo poco. La strada è lunga, ma con la partecipazione di tutti crediamo di potercela fare realmente.

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Perché una realtà del genere è importante e perché è diversa, cosa la rende speciale?

Non ci sentiamo speciali. In Italia ci sono tantissime associazioni e realtà che lavorano proprio come noi. Probabilmente il nostro merito è di essere riusciti a capire effettivamente di cosa avessero bisogno le persone, non solo dal punto di vista materiale, ma anche dal punto di vista della riflessione e del dibattito politico e sociale. Abbiamo ascoltato con attenzione le persone del quartiere, anziani, giovani, studenti e disoccupati, e, senza alcuno snobbismo di sorta, abbiamo lavorato per loro e con loro, anche sulle questioni più disparate: dalla lotta per avere un semaforo pedonale perché le signore che uscivano dalla chiesa rischiavano di essere investite, alle barriere architettoniche, al problema della sanità e dei presidi di pronti soccorso che vengono chiusi uno dietro l’altro. E, se da un lato abbiamo privilegiato l’umiltà, dall’altro abbiamo sempre cercato di non cadere nel populismo, nel voler avere a tutti i costi i favori di chi ci guarda e legge. Spesso ci siamo presi delle critiche, ma mai metteremo da parte ciò in cui crediamo e per cui lottiamo semplicemente per “farci piacere”. Per noi, la prima cosa da avere con chi ci frequenta è la sincerità: essere chiari e trasparenti e dire sempre la verità, i motivi di determinate scelte.

 

Infine, che significato ha il vostro nome, Je So’ Pazzo?

Je so’ Pazzo è il titolo di una celebre canzone di Pino Daniele, cantautore napoletano morto proprio qualche settimana prima dell’occupazione. Tanti di noi sono cresciuti con le sue canzoni, in cui narrava la città e il suo tessuto sociale, senza però mai cadere negli stereotipi. Occupando un OPG il titolo ci sembrava azzeccato, non solo per la natura del luogo, ma anche perché soltanto dei “pazzi” possono pensare di prendere un posto così grande, metterlo a posto e farci entrare persone di tutte le età. Ma, alla fine, se la normalità è questa società fatta di individualismo, guerra tra poveri, razzismo, sfruttamento, finta meritocrazia, raccomandazioni e corruzione, non vogliamo essere tutti un poco pazzi?

 

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