Il referendum e la Democrazia: istruzioni per l’uso

Il 2016 è l’anno dei referendum. come funziona questo prezioso strumento nelle mani dei cittadini?

Fulvia Abbondante

Negli ultimi tempi, il tema della Democrazia diretta è divenuto di sconcertante attualità. Questo rinnovato interesse è ascrivibile alla convergenza di alcuni fattori endogeni ed esogeni alle moderne Democrazie rappresentative. L’incontrollata globalizzazione economica – che ha prodotto crescenti disuguaglianze anche all’interno dei Paesi dotati di un alto grado di progresso economico – e la fine della guerra fredda, con la caduta delle vecchie ideologie, hanno colto di sorpresa i vecchi attori, per lungo tempo protagonisti della scena del Parlamentarismo di stampo occidentale. Negli ultimi anni, infatti, la governabilità è divenuta la parola d’ordine per presiedere ai complessi processi di modernizzazione producendo una sostanziale riduzione dell’importanza dei Parlamenti, che divengono meri ratificatori delle decisioni dei Governi, a loro volta sottoposti alle decisioni di enti sovranazionali/internazionali.
Ciò spiega l’insofferenza, sempre più evidente, da parte del corpo elettorale nei confronti di quei soggetti – partiti, sindacati – che per lunghissimo tempo hanno rappresentato luoghi di compensazione politica dei vari e conflittuali interessi che sembrano essere ridotti a semplici lobbies. Di qui, dunque, un sempre maggiore interesse – anche strumentale – degli istituti di Democrazia diretta, in particolare del referendum, considerati lo strumento privilegiato, se non l’unico, in grado di condizionare le scelte assunte dagli Esecutivi.
Questo uso e, spesso, abuso delle forme alternative alle Democrazie rappresentative in presenza di forti spinte populistiche – emerse in maniera evidente dopo la crisi economica che attanaglia il mondo occidentale oramai da nove anni – pone nuovamente l’antico problema del difficile bilanciamento dei due modi di essere della Democrazia.

Il referendum in Assemblea Costituente

Da un punto di vista strettamente costituzionalistico, la compatibilità del referendum con gli ordinamenti di Democrazia rappresentativa, espressione della centralità del Parlamento come sede di mediazione fra i vari interessi, è stata individuata nella necessità di introdurre un correttivo che possa anche tutelare le minoranze. In sostanza, la Democrazia diretta può essere considerata compatibile con quella rappresentativa solo se si configura come uno strumento di integrazione e miglioramento delle scelte effettuate e non come un sostituto di essa. Per tale ragione, l’istituto referendario, almeno in Italia, è stato considerato con una certa diffidenza già in Assemblea Costituente. Non a caso, la proposta molto ampia di Costantino Mortati – ispiratosi, fra l’altro, alla Costituzione tedesca di Weimar – che prevedeva l’introduzione in Costituzione di quasi tutte le forme di referendum, fu bocciata e sottoposta ad un serio ridimensionamento. L’unica forma di referendum ammessa fu quella abrogativa. Sono previsti anche un’ipotesi di referendum consultivo e un ulteriore referendum, quello costituzionale, diverso per natura e funzione da quello abrogativo, attivabile solo qualora la modifica della Costituzione non sia stata approvata nella seconda deliberazione dai 2/3 del Parlamento, ma a maggioranza assoluta. Nell’architettura istituzionale disegnata dal Costituente, pertanto, le forme di Democrazia diretta avrebbero avuto un peso limitato, lasciando agli organi dello Stato-apparato il compito di assumere le maggiori decisioni statali, attuando il principio della sovranità popolare in termini essenzialmente indiretti. Il sospetto che aleggiava intorno all’istituto referendario in Assemblea Costituente appare abbastanza chiaro dalla lettura dell’art. 75 così come inserito nella Carta Costituzionale: il referendum deve essere richiesto da 500.000 elettori o 5 Consigli regionali, ed è consentita l’abrogazione (totale o parziale) di una legge o di un atto avente forza di legge attraverso una votazione a cui possono partecipare tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei Deputati.


La proposta è approvata solo se si raggiunge la maggioranza dei voti validamente espressi, purché alla consultazione abbia preso parte la maggioranza degli aventi diritto (cd. quorum strutturale). Un doppio limite, quindi, al fine di evitare che minoranze sparute potessero mettere in discussione la legge parlamentare.
In secondo luogo, l’art. 75 comma 2 pone alcuni limiti all’abrogazione popolare. Sono escluse dalla consultazione le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali. L’ultimo comma dell’art. 75 rinviava, poi, alla legge ordinaria per dare esecuzione all’istituto referendario e la legge è intervenuta con notevole ritardo. Varie furono le ragioni che portarono a procrastinare l’entrata in vigore della disciplina di rango ordinario sul referendum. Primo fra tutti il cd. “ostruzionismo della maggioranza”, che determinò un sostanziale differimento di altri importanti istituti, quali la Corte Costituzionale, il CSM e l’ordinamento regionale. In realtà, secondo alcuni, la scelta del rinvio nascondeva una vera e propria opzione antireferendaria. Del resto, anche l’approvazione della legge 352/70 fu una sorta di merce di scambio fra l’allora partito di maggioranza relativa e le forze che sostenevano l’approvazione della legge sul divorzio. Questa vicenda è di particolare interesse perché aiuta a comprendere quanto il referendum possa essere uno strumento potente di legittimazione/delegittimazione politica di una certa maggioranza. La legge 352, infatti, venne approvata dai partiti di opposizione in cambio dell’approvazione della legge sul divorzio.
La DC e il MSI, contrari ad introdurre nel nostro ordinamento una normativa che consentisse la cessazione degli effetti civili del matrimonio cattolico – posizione avversata anche dalle gerarchie ecclesiastiche – ritenevano che attraverso il referendum potesse essere abrogata la legge sul divorzio ottenendo non solo una vittoria giuridica, ma anche politica. Al di dell’esito della consultazione, la scelta di limitare al massimo l’uso del referendum subì solo una deroga momentanea: per espressa volontà di tutti i partiti, l’istituto referendario doveva essere utilizzato in maniera molto limitata. Furono le iniziative del Partito radicale di Marco Pannella a cambiare anche la fisionomia del referendum. Quest’ultimo venne usato anche come strumento antipartitocratico, confermando, in tal modo, il presagio dei Costituenti per cui il potere lasciato ai cittadini si configurava come alternativo a quello basato sugli organi rappresentativi, rendendo, se non inutile, almeno non essenziale l’intermediazione dei partiti di massa.
Come vedremo in seguito, il referendum assumerà, con alterne vicende, sempre più valenza di misuratore degli umori popolari più che di strumento giuridico finalizzato a garantire la partecipazione dei cittadini.

La genesi della legge 352/1970 e la giurisprudenza della Corte Costituzionale

La legge 352 scandisce un procedimento abbastanza articolato affinché il referendum sia proponibile. È previsto, infatti, un doppio controllo: quello di regolarità, effettuato dall’Ufficio centrale per il referendum, istituito presso la Corte di Cassazione e quello di ammissibilità, per il quale è competente la Corte Costituzionale. Il termine per il deposito delle firme è compreso fra il 1° gennaio ed il 30 settembre e queste vanno presentate entro tre mesi dall’apposizione del timbro da parte dei segretari comunali e delle Cancellerie degli uffici giudiziari. Presso la Cancelleria viene verificata la regolarità formale delle firme (valide e in numero sufficiente) e delle delibere, dopodiché si deve anche verificare che la legge sia vigente, ovvero che non sia intervenuta una legge che abbia abrogato quella su cui è in corso il procedimento referendario (cd. effetto bloccante dell’abrogazione). Concluso il giudizio di regolarità, la parola passa, secondo quanto stabilito già dall’art. 134 Cost., alla Corte Costituzionale. Il giudizio di ammissibilità, infatti, previsto al fine di verificare che il referendum non abbia ad oggetto le leggi espressamente indicate nell’art. 75 comma 2 si è via via trasformato in decisioni sempre più complesse e articolate, finendo per ampliare la portata dei limiti previsti in Costituzione.


In particolare, la sentenza n. 16/1978 ha tracciato una sorta di linee guida sull’ammissibilità del referendum abrogativo. La Corte individua due tipi di confini all’ammissibilità. I primi attengono a quelle tipologie di leggi che, sebbene non espressamente previste nell’art. 75, sono comunque da considerarsi non sottoponibili a referendum: a) la Costituzione, le leggi di revisione costituzionale, le altre leggi costituzionali; b) leggi collegate a quelle espressamente indicate dall’art. 75 comma 2; c) un ulteriore limite è rappresentato dalle leggi cd. costituzionalmente necessarie o obbligatorie o a contenuto costituzionalmente vincolante; d) gli atti legislativi a forza rinforzata passiva (leggi modificative dei Patti lateranensi o leggi che regolano mediante intese i rapporti fra Stato e culti acattolici). L’altra tipologia attiene alla formulazione del quesito. Quest’ultimo, sempre secondo la Consulta, deve essere omogeneo e univoco in quanto una pluralità eterogena di domande, senza una matrice razionalmente unica, determinerebbe una lesione degli articoli 1 e 48 Cost., incidendo sulla libertà di voto; in una successiva sentenza è stato ulteriormente precisato che il quesito deve essere chiaro, coerente ed intellegibile. La Corte Costituzionale ha puntualizzato che l’eventuale promulgazione di una nuova legge che non modifichi né i principi ispiratori, né i contenuti essenziali della disciplina su cui pende il referendum comporta il trasferimento di quest’ultimo sulla nuova disciplina. Discorso a parte merita, invece, la possibilità di proporre un referendum abrogativo sulla legge elettorale. Su tale questione la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha escluso, sin dal 1987, la possibilità di un’abrogazione totale. La motivazione è che, trattandosi di una legge costituzionalmente necessaria, una sua abrogazione completa determinerebbe una paralisi del sistema. Durante gli anni di tangentopoli e la definitiva messa in crisi dei partiti tradizionali, con numerose sentenze la Corte ha dettato anche in tale caso regole precise perché un referendum in materia elettorale possa essere dichiarato ammissibile: a) il referendum in materia elettorale è consentito solo qualora sia richiesta un’abrogazione parziale della legge; b) la normativa di risulta, quella che viene fuori attraverso la tecnica del ritaglio, deve essere auto-applicativa, in grado di far funzionare l’organo; c) il quesito deve essere omogeneo, cioè presentare matrice razionalmente unitaria; d) non deve essere propositivo, cioè non deve tendere, attraverso la tecnica del ritaglio, a creare una disciplina nuova completamente diversa dalla precedente, trasformandosi il referendum da abrogativo in legislazione positiva; e) l’abrogazione totale di una legge elettorale, infine, non deve dar luogo in alcun modo alla reviviscenza della precedente disciplina: la reviviscenza è un istituto eccezionale che si applica alle norme meramente abrogative.

Il referendum Costituzionale

Un cenno merita anche il referendum costituzionale.
Questa tipologia di referendum differisce di molto da quello abrogativo in ordine alla funzione ed al procedimento.
L’art. 138, infatti, stabilisce: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.” Come si evince chiaramente dal dettato costituzionale, l’ipotesi prevista dall’art. 138 si configura come un subprocedimento eventuale e facoltativo all’interno del procedimento di revisione costituzionale, qualora in sede parlamentare non sia raggiunta la maggioranza qualificata (2/3), ma solo quella assoluta (50%). Ancora, il referendum di cui all’art. 138 non prevede, a differenza dell’art. 75, nessun quorum strutturale e aggiunge tra i proponenti 1/5 dei membri di una Camera. Le differenze fra le due ipotesi, a giudizio di alcuni studiosi, sarebbero indicative dell’intenzione dei Costituenti di fornire uno strumento alle opposizioni che, per una ragione o per un’altra, non avevano ritenuto di dover approvare la riforma.
Non a caso, infatti, non viene previsto un quorum partecipativo.
A differenza del referendum abrogativo, anche una piccolissima minoranza poteva dissentire e, quindi, vanificare l’operato del Parlamento nell’ottica che, trattandosi di una riforma che incideva sul patto fondativo della Repubblica, essa avesse il diritto di pronunciarsi contro. Depone per questa interpretazione anche l’estensione ai membri della Camera della possibilità di mettere in moto la procedura referendaria.


Sintetizza bene lo spirito dei Costituenti una frase pronunciata dal professor Sergio Panunzio: “Se non c’è dissenso, non c’è referendum”. Dal 2001 in poi, tuttavia, il referendum costituzionale ha cambiato il suo DNA. Da oppositivo si è tramutato in confermativo. Il referendum costituzionale del 2001 sul titolo V venne, infatti, proposto dalla stessa maggioranza di centrosinistra che votò in Parlamento la riforma, contraddicendo con ciò la natura “oppositiva” e di strumento di minoranza
propria, come abbiamo visto, del referendum costituzionale di cui all’art. 138 Cost. Questa trasformazione, peraltro, coincide con la trasformazione dell’architettura costituzionale immaginata dai Costituenti rispetto alla forma di Governo parlamentare. Caduto negli anni ‘90 a colpi di referendum abrogativo il sistema proporzionale, le successive due riforme del sistema elettorale sono state finalizzate a realizzare un bipolarismo estremo funzionale, almeno nelle intenzioni del legislatore, atto a garantire maggiore forza e stabilità al Governo.
L’intervento del corpo elettorale assume, quindi, il significato di confermare e/o legittimare una determinata scelta politica e il ricorso al referendum da eccezione diviene regola allorché l’approvazione della riforma si sia svolta in un clima di contrapposizione tra due opposti raggruppamenti di forze politiche. A ciò si aggiunga che, qualora esistano forti frizione all’interno della coalizione di maggioranza, il referendum viene utilizzato come strumento di lotta politica, di decapitazione del leader. Un ultimo aspetto di carattere tecnico va sottolineato.
Quando il referendum riguarda riforme di massicce parti della Costituzione, si chiede all’elettore di esprimersi con un sì o con un no su un quesito privo di qualsiasi elemento di omogeneità, altamente tecnico e, quindi, poco chiaro e intellegibile.

Conclusioni

A conclusione di questo brevissimo e incompleto excursus, vale la pena sottolineare che numerosi sono stati i tentati di riformare sia il referendum abrogativo, sia quello costituzionale. Basterà ricordare che la recente riforma Renzi–Boschi – bocciata con il referendum del 4 dicembre – prevedeva, per il referendum abrogativo, che, qualora vi fosse stata la proposta di 800.000 elettori e la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei Deputati, il referendum risultava approvato se fosse stata raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La medesima modifica costituzionale intendeva introdurre con legge costituzionale, al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché altre forme di consultazione,
anche delle formazioni sociali. Nell’ottica di una modifica della Costituzione che rafforzava i poteri del Governo, anche in ragione di una nuova legge elettorale da poco ridisegnata dalla Consulta, l’introduzione di questi strumenti di Democrazia diretta doveva fungere da contrappeso all’Esecutivo. Analogamente, molte proposte di riforma hanno riguardato anche l’art. 138 Cost. La questione è più complessa e i numerosi tentativi, quasi tutti falliti, dimostrano che la strada per rimodulare i rapporti fra Democrazia diretta e rappresentativa è, forse, un’altra. Le recenti vicende inglesi sulla Brexit ne sono una prova evidente. La Democrazia rappresentativa va integrata con quella diretta o, meglio, vanno individuati meccanismi diversi di partecipazione e vanno inseriti nel corso dei processi decisionali. Il referendum non può e non deve essere un mezzo per acquisire consenso popolare da parte delle élite dei partiti oramai delegittimati, né uno strumento di lotta politica. Le forme di Democrazia diretta, come avevano intuito bene i nostri Costituenti, devono essere residuali. La Democrazia rappresentativa, che resta pur sempre, con tutti i suoi limiti la forma di governo migliore, va seriamente ripensata.

Fulvia Abbondante, ricercatrice in Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

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