Panem et cirsenses: il populismo è una novità?

Il populismo è espressione e fatto moderno. Tuttavia, anche nella Roma antica lo sfruttamento delle masse fu uno strumento di grande importanza

Lorenzo De Vecchi

Ben nota è la formula di uno dei giganti della poesia latina e della poesia satirica in generale: mago dell’espressione fulminea, Giovenale condensò in panem et circenses il mezzo proprio dell’imperatore per ingraziarsi la plebe di Roma.
La satira vera, si sa, è eterna: come la plebe di Roma, non solo oggetto storico, ma condizione umana. Nasce come massa diseredata dell’Urbe e si rinnova nei secoli sotto forma di plebe urbana secentesca, di piccola borghesia assoggettata dai monarchi o di grande nobiltà asservita al Re Sole, di “massa” nel senso novecentesco, schiava dei totalitarismi del secolo breve, e di ceto medio inaridito, pigro, inerte: noi, che di panem et circenses siamo assai affamati e che, nell’epoca della comunicazione di massa, siamo in balia del populismo come nessuno mai.


C’è da riflettere su un fatto: nelle Democrazie moderne, il populismo rappresenta uno strumento pressoché indispensabile della vita politica, è ovvio. Ma un imperatore romano che bisogno ne aveva? La risposta la danno, in realtà, anche i più grandi teorici della monarchia assoluta. Da Richelieu a Hobbes, nessuno dei grandi sostenitori della necessità di un capo supremo ha mai sottovalutato la potenziale forza rivoluzionaria del gregge: non ancora il gregge iperattivo dell’ultimo secolo, ma pur sempre un numerosissimo gregge con in mano zappe e rastrelli pronti a essere girati dalla terra al cielo. Così, anche un Nerone o un Domiziano, tirannici protagonisti del I secolo d.C. e odiati da Giovenale, dovevano pur tenere in mano questa gigantesca materia oscura su cui si trovavano a governare, ossia l’abbondante milione di persone che si aggirava per Roma. Nulla di meglio che riempire i teatri di gladiatori, schiavi e Cristiani per divertire il popolo: divertire,
cioè distogliere, vertere l’attenzione (dalle cose dello Stato) da un’altra parte (sui giochi, appunto).

C’è da riflettere su un fatto:
nelle Democrazie moderne,
il populismo rappresenta
uno strumento pressoché
indispensabile della vita politica,
è ovvio. Ma un imperatore
romano che bisogno ne aveva?

Le teste degli imperatori potevano cadere, lo si sapeva bene già da tempo. Del resto, di teste ne erano cadute tantissime nella Roma repubblicana, sulla quale è bene dire qualcosa. Per comprendere compiutamente la natura profonda della Roma antica è indispensabile conoscere il II secolo a.C.
Fu nei cent’anni scarsi dopo la battaglia di Zama, con la quale Roma si liberò per sempre della potenza cartaginese, che
la Repubblica diventò, da potenza regionale o quasi nazionale, non ‘una’, ma ‘la’ grande potenza del mondo antico. In meno di cinquant’anni lo Stato si ampliò a dismisura. Le prime regioni mediterranee a cadere furono Macedonia e Grecia. Come Orazio, poco prima della nascita di Cristo, poteva ormai osservare con lucidità «La Grecia, conquistata, conquistò il selvaggio vincitore»: la grande cultura greca, intendeva lui, poeti, filosofi, drammaturghi; ma, diremo noi, anche la grande bellezza ornamentale, il lusso, i piaceri. Insomma, la bella vita.

Roma si arricchì o, meglio, il Romano si arricchì (e “si grecizzò” dicevano con disprezzo i conservatori) a tal punto che il cittadino ideale, severo proprietario terriero, puro e onesto, patriottico, inflessibile, parco, diventò sempre più corrotto, indolente e, di conseguenza, moralmente indebolito, perfino fraudolento. Si apriva così la tarda Repubblica, dal tribunato di Tiberio Gracco nel 133 alla battaglia di Azio nel 31 a.C., un secolo straordinario sotto ogni punto di vista; ma, certo, un secolo in cui l’ambizione personale sostituì sempre più il senso dello Stato e il desiderio di ricchezze frantumò la gravitas di Catone e dei suoi antenati. Questa restava un riferimento morale sullo sfondo di una Roma mitica poiché, ormai, nella Roma vera, di gravitas ce n’era sempre meno. L’uomo di Stato divenne un avvoltoio; le cariche pubbliche non più un fine, ma un mezzo, non più per lo Stato, ma contro lo Stato, inteso come comunità unita e pacifica. C’erano le elezioni, a Roma, per le cariche pubbliche: si sviluppò, così, una corruzione tale da fare, del sistema clientelare già in atto dagli inizi della Repubblica, un mostro multiforme che avrebbe progressivamente divorato i fondamenti stessi di quella Repubblica fino alla sua agonia.

L’uomo di Stato divenne un
avvoltoio; le cariche pubbliche
non più un fine, ma un mezzo,
non più per lo Stato, ma contro
lo Stato, inteso come comunità
unita e pacifica.

Bande armate al soldo di senatori, cavalieri, briganti arricchiti giravano per Roma terrorizzando la gente; la lotta politica si inasprì al punto che, dopo la morte di Cesare, le tendenze messianiche della plebe ebbero un ruolo principale per la trasformazione della Repubblica in Impero, cioè per trasformare Roma da campo di battaglia del più sanguinario populismo a proprietà di un ex sanguinario populista, ormai saggio pacificatore e unico reggente: Ottaviano detto Augusto. Lui, poco prima di Gesù, fu il vero Messia che l’Occidente attendeva.
La carriera di uno dei grandi geni della politica occidentale è emblematica: a 20 anni egli seppe sfruttare le masse come nessuno.
Il populismo, se è “esaltazione demagogica delle qualità delle classi popolari”, fu per alcuni anni il suo strumento di battaglia, affinato ormai da quattro generazioni di Romani senza scrupoli. Egli fece di Roma il suo quartier generale, con Marco Antonio relegato a Oriente e la plebe dell’Urbe a venerarlo come salvatore. Quando la Repubblica fu nelle sue mani, seppe ringraziare quella plebe donandole la Pax Augusta e, con essa, la possibilità di dedicarsi di nuovo, ma senza guardarsi alle spalle, a pane e giocolieri.
Lo Stato cambiò forma, e con esso il “populismo”, se così vogliamo chiamarlo. Insomma, lo sfruttamento demagogico delle masse era nato con la crisi della Repubblica, aveva raggiunto il culmine negli anni della sua morte e riprese, con altre caratteristiche, alla nascita dell’Impero. Vale a dire, il popolo è quella materia oscura che tiene insieme il kosmos.

Insomma, lo sfruttamento
demagogico delle masse era nato
con la crisi della Repubblica,
aveva raggiunto il culmine negli
anni della sua morte e riprese,
con altre caratteristiche, alla
nascita dell’Impero.

Nelle Repubbliche o negli Imperi, nelle Monarchie costituzionali o nelle Democrazie, le stelle, con ogni mezzo a loro disposizione, traggono da quella materia, svuotandola, la luce che le rende tali, in parte confermando la sua decisiva importanza, in parte, su ciò, illudendola. Che poi tra Augusto e Beppe Grillo ci passi in mezzo l’abisso, questo dipende dalla natura della materia oscura, ma anche dalla grandezza e dalla luminosità delle stelle.

Lorenzo De Vecchi, insegnante e giornalista, dottore di ricerca in Letteratura latina

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