Cinque brevi spunti dal referendum sulla Brexit

Referendum, populismi e Unione Europea: l’esito del voto britannico ci insegna qualcosa su noi stessi e sul nostro futuro

Andrea Pareschi

Come recita l’arguta maledizione cinese, viviamo davvero in “tempi interessanti”, di derive inquietanti e di cambiamenti politici più e meno repentini. Quest’epoca instabile ci costringe a riconoscere nuovamente la potenza della politica, delle decisioni pubbliche, delle battaglie valoriali e delle idee, se non proprio delle ideologie. Ci spinge, inoltre, a cercare nel passato e a forgiare ex novo chiavi di lettura per interpretare le complesse dinamiche del presente, proprio mentre mette in discussione certezze che l’esperienza ha detto vere per decenni. Se questo è apparso evidente in tutta la sua portata con l’imprevista elezione di Trump e con i suoi primi, sconcertanti atti da Presidente, già l’altrettanto sorprendente esito del referendum sulla Brexit aveva dato eloquenti avvisaglie.
Il 23 giugno 2016, quasi il 52% della popolazione votante britannica si è espresso in favore dell’uscita dall’Unione Europea. Il risultato ha causato le dimissioni del Primo Ministro, rimettendo in agenda una possibile richiesta di indipendenza da parte della Scozia.
Il passo successivo sarebbe stato la notifica ufficiale dell’intenzione di abbandonare l’Unione – e quindi l’avvio di complessi negoziati pluriennali a proposito delle precise condizioni di uscita – ma le complicazioni sono iniziate ben prima. Per svariati mesi la questione principale ha riguardato chi dovesse avere l’ultima parola nel prendere la decisione: il Governo, sulla base del referendum, oppure il Parlamento. In seguito ad un ricorso, decisioni dell’Alta Corte e della Suprema Corte hanno decretato la necessità di un voto di ciascuna delle due Camere per poter procedere. Al di là delle specificità nazionali, comunque, la vicenda del referendum britannico può anche servire per riflettere su un più generale “spirito dei tempi” che coinvolge anche noi.

C’è tensione fra Democrazia rappresentativa e Democrazia diretta

Gli ordinamenti democratici sono fondati sull’elezione di rappresentanti da parte del popolo, incaricati di esercitare il potere legislativo e quello esecutivo, ma spesso includono istituti di democrazia diretta con cui il popolo può contribuire senza intermediazione, tra cui il referendum.
La coesistenza tra i due circuiti è gestita diversamente in diversi Stati. La Costituzione italiana, ad esempio, stabilisce i requisiti per indire un referendum e non lo ammette per alcune materie anche di spicco (leggi di bilancio, ratifica di trattati). Nel sistema politico britannico, tradizionalmente elitista, ma investito, come altri, da sfiducia verso la politica, il referendum – il cui uso è assai meno normato e più ad hoc – è stato pressoché sconosciuto fin quasi alla fine del secolo scorso, ma utilizzato sempre più negli ultimi anni. È degno di nota che, quando la Suprema Corte ha attribuito al Parlamento la decisione finale sulla Brexit, la Camera dei Comuni, pur composta prevalentemente da politici schierati contro l’uscita dalla UE, non abbia ritenuto – anche per via di dinamiche partitiche – di opporsi all’esito del referendum.

Il referendum è uno strumento imperfetto

Cameron, che pure aveva negato che si sarebbe dimesso in caso di sconfitta del Remain, è diventato il primo Premier britannico a vedere la propria carriera stroncata da un referendum. Che l’opinione di una maggioranza dei votanti sia interpretata come così categorica da costringere un Primo Ministro “non in sintonia” a farsi indietro con effetto immediato? Eppure, un voto referendario espresso in un momento puntuale può finire per riflettere soddisfazione o risentimento per lo status quo che vanno al di là del quesito specifico. Del resto, lo stesso Cameron ha fissato la data del referendum puntando ad approfittare della ripresa economica e della propria fresca rielezione. Questo suggerisce una relazione non scontata tra élite politiche e popolazione. I governanti controllano, sulla base dei rapporti di forza tra loro, le condizioni di contorno del referendum, anche se ci sono limiti al loro margine di influenza. Rimosso un Premier reo di avere abbracciato una posizione perdente, successori e oppositori interpretano il risultato nel modo più conveniente possibile, come illustra il ricompattamento dei conservatori attorno alla gestione della Brexit proposta dal governo May.

Il popolo non ha una volontà monolitica

Questo è più semplice se l’opzione scelta dai votanti non dà adito ad un’interpretazione univoca della loro volontà, nel qual caso il fatto che il referendum comprima una pluralità di opinioni in una scelta binaria e “fabbrichi” una volontà popolare maggioritaria diventa più controverso.
Nel caso specifico, un voto per uscire dall’Unione Europea ha aperto un’imprevedibile gamma di possibili scenari, rispetto ai quali difficilmente i sostenitori del Leave si troverebbero tutti d’accordo. Inoltre, il voto è risultato polarizzato in più di un modo. Inghilterra e Galles hanno votato in maggioranza per lasciare l’Unione, Scozia e Irlanda del Nord per restarvi, così come la capitale Londra. Il Leave ha prevalso fra le persone di mezza età e anziane, non fra giovani e trentenni; tra i cittadini con istruzione limitata o intermedia, non tra quelli che hanno proseguito gli studi oltre i 18 anni; tra i bianchi di origine britannica, non tra le minoranze. Queste e altre discrepanze nelle decisioni di voto hanno inasprito le tensioni tra diverse generazioni, categorie sociali e zone del Paese.

Non solo i “populisti” diffondono disinformazione e semplificazioni

Se l’esito di un referendum è percepito alla stregua di una “volontà generale” rousseauiana, questo si deve anche all’insistenza di partiti populisti come lo UKIP di Farage in chiave anti-establishment. Non sono stati soltanto i partiti più controversi, però, ad avvelenare il dibattito pubblico con argomenti ingannevoli, richiami apocalittici all’immigrazione e promesse irresponsabili poi rinnegate.
Ne sia un esempio un poster di Vote Leave – il comitato ufficiale del fronte del Leave – che recitava: “La Turchia (popolazione 76 milioni) sta per aderire alla UE – Vota Leave, riprendi il controllo”. Anche esponenti dei partiti “storici” si sono cimentati in dichiarazioni populiste, come quando il Ministro della Giustizia Gove, commentando la quasi totale assenza di economisti favorevoli alla Brexit, ha ribattuto: “Penso che le persone di questo Paese ne abbiano avuto abbastanza degli esperti”. Vale, infine, la pena ricordare l’illusoria proposta di Vote Leave di destinare al sistema sanitario nazionale il contributo – oltretutto identificato in una cifra esagerata – finora versato al bilancio europeo.

Una “maggioranza silenziosa” eurofila non è più scontata

Segnalare le ambiguità del referendum e dell’opinione pubblica rischia, però, di essere simile a guardare il dito anziché la luna. Il caso britannico è particolare in rapporto all’Unione Europea: per l’eccezionalismo imperiale, la radicata identità nazionale, l’agguerrita stampa euroscettica, un sostegno all’integrazione europea storicamente legato alla percezione di vantaggi economici. Tuttavia, anche in altri Paesi i partiti tradizionali pro-integrazione sembrano avere avuto troppa fede in un’eterna maggioranza di cittadini “ragionevoli”, a dispetto di disparità sociali e incertezze dovute ai molteplici risvolti della globalizzazione.
Numerosi combinano oggi un consenso di principio all’Unione con irruenti critiche al suo assetto, che paiono volte a difendersi a parole dal vento anti-establishment più che ad impegnarsi a riformarla. Hanno così lasciato il campo per anni a partiti le cui ricette identitarie e semplicistiche rispondono ad ansie solo in parte condivisibili, ma spesso semplicemente ignorate.
Per le forze politiche convinte che l’Unione Europea debba essere parte della soluzione alle difficoltà attuali, questi tempi somigliano ad un’ultima chiamata a sviluppare una visione di ragione e di passione per i tempi a venire, prima che la popolazione cessi definitivamente di ascoltare.

Andrea Pareschi, ricercatore e collaboratore della rivista Pandora

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