L’intolleranza religiosa e la discriminazione ai tempi dell’estremismo

Le discriminazioni razziali non sono un fenomeno nuovo. Per molti versi, l’intera storia sociale dell’umanità è stata una storia di discriminazioni, una storia di gruppi che di volta in volta hanno cercato di prevalere su altri, rivendicando per sé benefici ed escludendo i “diversi”, coloro che, per ragioni etniche, appartenenze o identità, non erano ammessi a godere dei privilegi della maggioranza.

L’intolleranza religiosa, invece, è relativamente recente, sviluppatasi con la nascita delle religioni monoteiste, che vedono se stesse come portatrici di una verità assoluta, giusta, e che, come tale, non possono convivere con altre verità. Fu così che gli ebrei perseguirono i primi cristiani, e che i cristiani poi perseguirono ebrei, pagani e quanti si rifiutavano di riconoscere la supremazia del loro Dio. Nei secoli, man mano che le società entravano in contatto le une con le altre e si trovavano di fronte a realtà di volta in volta sempre più diverse, l’intolleranza si è intrecciata con idee razziste e xenofobe, fino a sfociare nei drammi perpetrati dai regimi totalitari del Novecento. E oggi, nonostante l’intolleranza e le discriminazioni basate sulla religione siano di fatto vietate dalla maggior parte delle Costituzioni e da diverse Convenzioni internazionali, il problema risulta essere quanto mai vivo.

Simbolo forte di identità e ispiratrice di stili di vita spesso molto distanti tra loro, le religioni, dalla dimensione privata in cui si era cercato di confinarle, tornano ad essere un fatto pubblico, politico, e sono fin troppo spesso strumentalizzate da intransigenti difensori del nazionalismo, additate come la fonte dei mali odierni, distorte e caricate di significati sbagliati.

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Intolleranza  e discriminazione religiose oggi

Il Pew Forum Research Center, istituto che analizza le interazioni tra politica e religione nel mondo, ha evidenziato come, nell’ultimo periodo preso in esame, il 2013, esistessero limitazioni alla libertà religiosa, di natura sociale o governativa, in quasi il 30% dei Paesi del mondo. Gli studi mostrano come le restrizioni siano “alte” o “molto alte” nel 39% dei Paesi e come, poiché tra questi vi sono anche alcuni degli Stati più popolosi del mondo – come India e Cina – circa 5 miliardi e mezzo di persone, pari al 77% della popolazione mondiale, vivano in situazioni in cui le restrizioni alla libertà religiosa sono elevate.

I paesi in cui la libertà di culto è maggiormente minacciata sono in particolare la Cina (che nel 2013 aveva il più alto tasso di restrizioni di natura legislativa), l’India (con il dato più elevato in quanto a pressioni provenienti dalla società civile), il Myanmar, l’Egitto, l’Indonesia, il Pakistan e la Russia.

 

Così terrorismo ed estremismo influenzano la libertà di culto

Ad avere uno degli effetti più deleteri sulla libertà religiosa dall’inizio del secolo ad oggi è stata la nascita di nuove forme di estremismo islamico e la loro rapida diffusione, con violenti attacchi che hanno colpito una nazione su cinque nel mondo. Nel Rapporto 2016 sulla libertà religiosa nel mondo, pubblicato da ACS (Aiuto alla Chiesa che Soffre), viene evidenziato come quello che è stato definito iper-estremismo islamista stia “eliminando ogni forma di diversità religiosa” in vaste zone del Medio Oriente, ma anche in Africa e Asia.

L’estremismo alza la voce sempre più frequentemente anche in Occidente, sferrando cruenti attacchi terroristici che, oltre a spargere sangue e lasciare vittime, hanno anche l’effetto di aggravare il clima di intolleranza che è andato diffondendosi. Il terrorismo, peraltro, colpisce un’Europa già messa alle corde da flussi migratori senza precedenti, che portano sulle nostre coste centinaia di migliaia di persone con storie, tradizioni e credenze diverse da quelle a cui è legata l’Europa cristiana. Profughi e rifugiati vengono accusati di essere essi stessi terroristi venuti con la missione di diffondere l’estremismo in Occidente. Per quanto sia innegabile che i canali di accesso dei migranti possono essere usati come cavallo di Troia, non bisogna dimenticare il fatto che la maggior parte di quanti sbarcano sulle nostre coste fugge dagli stessi gruppi estremisti che noi tanto temiamo e che loro, per primi, cercano a vogliono la pace.

È perciò nato e si è sviluppato un clima di sospetto e di sfiducia tra i fedeli di religioni diverse, per cui ogni rivendicazione di identità è vista come un tentativo di affermare una propria supremazia e ogni sforzo di confronto o apertura viene considerato un inganno.  L’islamofobia è cresciuta ovunque e vi sono realtà in cui è diffusa l’idea che l’estremismo sia una sorta di caratteristica intrinseca dell’Islam, tant’è che in Italia la percentuale di quanti pensano che “molti” o “la maggior parte” dei fedeli musulmani sostengono l’operato dell’ISIS e degli altri gruppi estremisti raggiunge punte superiori al 45%.

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Luoghi di culto, terre nemiche?

La costruzione di moschee sul suolo europeo ha spesso suscitato, nel corso degli anni, aspre polemiche e resistenze da parte delle popolazioni locali. Viste come focolai di estremismo, luoghi di diffusione di idee sovversive, additate come scuole o centri di reclutamento per giovani terroristi, le moschee sono state al centro di infinite diatribe. Non di rado la politica stessa, anziché favorire il dialogo volto ad assicurare la pacifica convivenza delle comunità, ha invece fomentato le paure popolari.

È quanto è successo a Milano, per esempio, dove i partiti di destra, Lega Nord in primis, hanno cercato di fare leva sul clima di terrore successivo agli attacchi dell’ISIS degli ultimi anni per ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto, sostenendo che la loro costruzione è da evitare per non avere poi “sulla coscienza eventuali future morti di persone innocenti”. Affermazioni forti, esagerate, che altro non fanno che amplificare sfiducia e risentimento reciproci. È quanto è successo nel 2016 a Pisa, dove la richiesta di una nuova moschea per la comunità islamica ha mobilitato migliaia di cittadini in una campagna di raccolta firme contro la sua costruzione. Episodio analogo a Cagliari, dove la stessa ipotesi ha scatenato sul web un’ondata di commenti razzisti e di odio nei confronto dei musulmani e di quanti si dichiarassero favorevoli.

Caso ancor più emblematico è quello della Svizzera, dove una legge del 2009 vieta la costruzione di minareti. Il provvedimento è stato emanato in seguito al referendum popolare promosso dai partiti della destra nazional-conservatrice, che additava a tali edifici quali “simboli di una rivendicazione del potere politico e sociale dell’Islam”. A discapito dei pronostici della vigilia, il 57% dei cittadini elvetici ha votato a favore dell’inserimento nella Costituzione di un esplicito divieto all’edificazione di nuovi minareti nel Paese e solo in 4 dei 26 cantoni svizzeri è prevalso il “no”. Il Paese si trova quindi nella situazione paradossale in cui è consentita l’apertura di moschee, purché non abbiano torri per l’invito alla preghiera. Un po’ come se i cristiani costruissero chiese senza campanili. Quasi fosse esclusivamente la presenza di tali elementi architettonici a suscitare nei fedeli sentimenti estremisti o a sedurre giovani di altre religioni spingendoli a convertirsi alla causa jihadista.

Coscienze velate: quando un abito diviene un marchio

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Se la possibilità per i musulmani di disporre di luoghi di culto in cui riunirsi comunitariamente è ostacolata,lo sono anche le loro scelte individuali. Le donne che decidono di portare il velo sono spesso destinatarie di commenti razzisti e xenofobi, condannate dall’opinione pubblica in nome di una maggiore sicurezza o di uno stimolo all’emancipazione delle donne, per favorire una loro libertà di espressione che però, così, viene al contrario negata.

Studi e ricerche dimostrano che l’uso del velo preclude l’accesso a determinati impieghi o cariche, con datori di lavoro che sostengono che l’hijab non sia adatto a posizioni che richiedono il contatto col pubblico. Nondimeno, le donne musulmane vengono spesso scartate anche per lavori che non presuppongono rapporti diretti col pubblico: cuoca, operaia, addetta alle pulizie. E, anche nel caso in cui vengano assunte, esse diventano facilmente vittime di insulti, attacchi verbali e manifestazioni di intolleranza da parte dei colleghi e dei datori di lavoro. L’inconfondibilità e appariscenza dell’hijab rendono le donne musulmane una delle categorie sociali più vulnerabili, esponendole a discriminazioni e molestie continue e costringendole, spesso, a rinunciare a uno dei diritti basilari: il diritto al lavoro.

Il velo istiga l’odio di chi vive di pregiudizi e di paura del prossimo e, quella che è una scelta intima della fedele, sostenuta da credenze e da un proprio modo di vivere la religione, viene vista come ostentazione e tentativo di indottrinamento. Una situazione in cui l’essere musulmana si fonde con l’essere donna e l’essere straniera e che non di rado porta all’autoesclusione dal mercato del lavoro e all’autosegregazione.

Io sono e tu sei: il diritto di essere

Il concetto di uguaglianza viene di continuo distorto, capovolto, invocato in nome della libertà e al tempo stesso ostacolato in nome di quella stessa libertà. Se siamo tutti uguali, tutti dovremmo poter esprimere ciò in cui crediamo, dovremmo poter indossare abiti che ci rappresentano e avere la possibilità di riunirci con quanti condividono il nostro stesso sentire. Se siamo tutti uguali, alcuni non dovrebbero essere un po’ meno uguali di altri. Non dovrebbero essere uguali soltanto finché se ne stanno nei loro Paesi, né dovrebbero essere uguali solo se, trasferendosi in terre con modi di vivere diversi, rinunciano alla propria storia e identità. E, per quanto esistano legittime necessità di una normativa a garanzia della sicurezza e della pacifica convivenza di tutti, queste non dovrebbero essere usate come un pretesto per limitare la libertà di espressione dei gruppi minoritari.

In un mondo globalizzato, in cui le culture sono destinate ad entrare in contatto, indipendentemente dalla presenza di un reale desiderio di incontro, il reciproco rispetto deve essere alla base del riconoscimento per tutti di professare il proprio credo, che non è altro che una delle tante sfaccettature di un diritto più ampio, essenziale e necessario: il diritto di essere.

 

Alessia Biondi

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