Sin qui ci siamo occupati dei nostri doveri come utenti di social media e dei conseguenti doveri dei gestori di queste piattaforme laddove i comportamenti dei singoli siano in qualche modo lesivi di un’altra persona o della collettività. La riflessione odierna riguarda, invece, un diritto dei singoli nei confronti della rete, reso quanto mai attuale da casi di cronaca anche recenti che hanno posto tragicamente all’attenzione di tutti quanto sia importante talvolta “essere dimenticati”: oggi parliamo di diritto all’oblio.
Il diritto all’oblio: una definizione
Il diritto all’oblio consiste ne “il diritto a che nessuno riproponga nel presente un episodio che riguarda la nostra vita passata e che ciascuno di noi vorrebbe, per le ragioni più diverse, rimanesse semplicemente affidato alla storia.
E’ questa la definizione che ne da Guido Scorza nella sua intervista Diritto all’oblio e diritto alla storia e che riassume con poche ma efficaci parole il desiderio di ognuno di dimenticare propri comportamenti discutibili lasciando che il giudizio definitivo sugli stessi sia filtrato dal tempo e – auspicatamene – dalla dimenticanza.
Un moderno “late biosas”: essere dimenticati
Come spesso avviene quando ci si approccia al mondo di internet e delle nuove tecnologie, benchè gli strumenti siano modernissimi ed innovativi, i bisogni e gli interessi che le sottendono non sono affatto nuovi o sconosciuti: l’esigenza di essere dimenticati, o più precisamente che un episodio poco edificante della propria vita passata venga dimenticato, è sempre esistita: non è un caso, probabilmente, che alcune delle sentenze che si sono occupate del problema si riferiscano a fatti di terrorismo a cui l’autore, al termine di un percorso giudiziario e personale molto complesso e travagliato, non voleva più essere accostato.
La questione della ripubblicazione di notizie di cronaca, oramai lontane nel tempo ma riproposte in relazione a fatti più recenti, e del suo conflitto con il diritto del singolo ad essere dimenticato sì è posta ben prima dell’avvento della Rete ed i giudici hanno già da tempo riconosciuto un “diritto all’oblio” per l’individuo, ovvero il diritto a non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare al proprio onore e alla propria reputazione; unica eccezione il sopravvenire di eventi che rendano il fatto precedente di attualità e conseguentemente rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione.
Lo stesso principio vale anche per personaggi che hanno avuto grande notorietà.
L’avvento del web
Se pertanto l’esigenza è ben più risalente dell’avvento di internet, il suo capillare utilizzo amplifica e fa “esplodere” il problema: l’informazione nel web è non stratificata nella stessa maniera a cui per secoli ci eravamo abituati, biblioteche ed emeroteche sono state sempre consultabili, ma prevedevano la necessità un accesso fisico ai documenti, bisognava materialmente recarsi presso l’archivio, effettuare una lunga e paziente ricerca sui testi, impiegando tempo e attenzione per ritrovare esattamente quella pagina di giornale con la descrizione di quel determinato evento di cronaca; a conti fatti solo un vero e profondo interesse riuscivano a giustificare il dispendio di tante risorse materiali ed intellettuali .
La “rete” rende tutto estremamente semplice ed immediato: pochi click e riappaiono articoli e fatti lontani nel tempo e nello spazio, stravolgendo i normali contrappesi – tempo, spostamenti fisici, attenzione e dedizione – che una ricerca storica presuppone; inoltre il web vive un eterno presente, in cui la rapidità e la facilità di accesso alle informazioni rischia di far perdere al fruitore quella prospettiva storica dei fatti che permette di inserirli correttamente nel contesto in cui si sono svolti, rendendoli proprio per questo maggiormente comprensibili.
Ultimamente l’avvento dei social media e la possibilità che anche immagini o video strettamente privati possano essere diffusi verso chiunque grazie al meccanismo in qualche modo “perverso” della condivisione incrociata tra gruppi di utenti diversi, rende ancora più urgente la tematica e l’assenza di norme chiare, con la conseguente difficoltà di ottenere in tempi ragionevoli la rimozione di video o foto di cui non si vuole più la diffusione, talvolta sfocia in epiloghi tragici, impressi nella memoria di ciascuno di noi.
Diritto all’oblio versus diritto all’informazione
In questo contesto così mutato rispetto al passato, anche recente, come conciliare la memoria dell’informazione ed il diritto all’oblio?
Il diritto all’oblio confligge, infatti, con un altro importante diritto costituzionalmente garantito: il diritto all’informazione e alla libertà di espressione; se un reato o una notizia sono considerati di interesse per la società e per la completezza dell’informazione, i cittadini hanno diritto a che quella notizia resti comunque disponibile.
Un prima risposta alle opposte esigenze l’ha fornita la sentenza di Cassazione del 5 aprile 2012, n. 5525, la quale nella scelta tra la cancellazione dalla rete o contestualizzazione dell’informazione ha individuato il punto di mediazione proprio nella necessità di fornire il giusto contesto a chi accede alle informazioni, non si tratta quindi di sancire un diritto a dimenticare, ma del diritto a contestualizzare (banalmente corredando le pagine web di una data che consenta al lettore di comprendere il contesto temporale in cui si iscrive la notizia).
Anche il Garante per la protezione dei dati personali fin dal 2009 aveva fornito alcune indicazioni circa le modalità con le quali gli interessati potessero fare opposizione al trattamento dei propri dati per motivi legittimi e soprattutto aveva riconosciuta come legittima l’aspirazione a che nei motori di ricerca esterni al sito dell’editore ove la notizia era pubblicata, non restino associate perennemente al proprio nominativo le notizie oggetto dell’articolo.
Il Garante italiano, allo stesso modo che la Cassazione, non aveva richiesto la cancellazione della notizia, ma che la pagina web contenente i dati personali dell’interessato fosse tecnicamente sottratta alla diretta individuabilità tramite i più utilizzati motori di ricerca esterni (c.d. fase di grabbing) , facendo sostanzialmente gravare sull’amministratore del sito web sorgente l’onere di non rendere facilmente indicizzabile la notizia attraverso i dati personali del soggetto che aveva chiesto di “essere dimenticato”.
Il caso “Costeja”
L’interdipendenza tra il diritto all’oblio e la protezione dati personali è stato affermato sentenza della Corte di giustizia Europea del 13 maggio 2014, c.d. Sentenza Google Spain o Costeja, la quale si è occupata di una richiesta di blocco e cancellazione di dati personali richiesta ai sensi della direttiva europea 95/46 .
Anche in questo caso il conflitto il diritto all’oblio e il diritto di cronaca viene risolto dalla Corte equilibrando i due diritti: nessun dato viene cancellato o rimosso dai server e, soprattutto, dai risultati delle ricerche, vengono solo oscurati i risultati delle ricerche fatte in base al nominativo della persona cui è stato riconosciuto il diritto all’oblio, ma non i risultati, relativi allo stesso argomento, ma ricavati con altre chiavi di ricerca: ad esempio se Tizio ha commesso una rapina in Banca a Cividale ed a Tizio – per motivi meritevoli – viene riconosciuto il diritto all’oblio, i più comuni motori di ricerca non potranno più riportare nei risultati delle ricerche fatte a partire dal nome “Tizio” il fatto “rapina in Banca a Cividale”; ma la ricerca sul fatto “rapina in Banca a Cividale” riporterà ovviamente l’articolo completo anche con il nome di Tizio.
In questo modo viene riconosciuto il diritto a che la deindicizzazione delle informazioni personali relative ad un determinato fatto di cronaca sia effettuata dal motore di ricerca e non dal gestore del sito web ove la notizia è stata pubblicata.
Il c.d. Regolamento Privacy ed il diritto all’oblio
La sentenza della Corte aveva però creato un “vuoto applicativo”: chi e secondo quali regole può chiedere l’applicazione del diritto all’oblio?
La Corte finiva per demandare al motore di ricerca l’interpretazione dei casi e le relative decisioni ed è per questo che è lo stesso legislatore europeo, con il Regolamento 2016/679 (c.d. Regolamento Privacy), che entrerà pienamente in vigore in Italia solo il 25 maggio 2018, ha stabilito che:
“L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali”, altresì elencando tra i motivi:
a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;
b) l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento
c) l’interessato si oppone al trattamento e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, .
L’esercizio di tali diritti presuppone che il gestore del motore di ricerca sia individuato come titolare del trattamento dati, cosa che – è bene dirlo – è sempre stata contestata dai grandi gestori di tali servizi di ricerca ma che invece i giudici hanno sempre riconosciuto.
L’obbligo di cancellazione, infatti, viene imposto a carico del titolare del trattamento che abbia reso pubblici dati personali, tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione, ed adottando le misure ragionevoli, anche tecniche, per informare i titolari del trattamento che stanno trattando i dati personali oggetto di istanza, da parte dell’interessato, di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei suoi dati personali.
La normativa europea, però, non dimentica il diritto all’informazione e precisa che i predetti principi non trovano applicazione quando il trattamento sia necessario, tra l’altro:
a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;
b) per l’adempimento di un obbligo legale che richieda il trattamento previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
c) per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica
d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici.
Diritto all’informazione o sfruttamento commerciale dell’informazione?
La normativa europea è sicuramente un passo avanti rispetto all’attuale vuoto legislativo ma la complessità della tutela dell’individuo rispetto ai fatti ed alle informazioni reperibili in rete probabilmente richiederà ulteriori specificazioni ed un intervento più incisivo su chi gestisce grandissime quantità di dati personali in maniera non meramente passiva (come spesso affermano i motori di ricerca per eludere le relative responsabilità) ma attiva – attraverso interconnessioni e profilazioni – segnando maggiormente una linea di demarcazione tra il diritto all’informazione e il mero sfruttamento commerciale delle informazioni.
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