Lo scrigno dell’arte: Ciro Arcella

Ciro ArcellaLo vidi, un giorno in cima alle scale, stava per entrare nell’appartamento di fronte al mio, li abitavano due miei amici, mi chiesi chi fosse quell’uomo energico dai meravigliosi folti capelli bianchi, fisico esile e agile, occhiali con montatura nera in perfetto contrasto con i suoi colori, sicuramente era un’artista.

Scoprii poco dopo che quell’enigmatica figura era il papà della mia amica, lei già mi aveva parlato di lui e io nutrivo dentro di me la voglia di conoscerlo e di parlare con lui dell’argomento a noi comune: l’ARTE. Correva l’anno 1996, iniziai ad addentrarmi nelle sue sperimentazioni artistiche e a conoscere la sua poliedricità, venni invasa dal suo entusiasmo, dal suo costante e continuo inno all’esistenza, dall’omaggio continuo che faceva al colore e dalla sua profonda e fondata cultura della vita oltre che dell’arte.

Il percorso artistico di Ciro Arcella ebbe inizio con i primi anni ’60, anni ai quali risalgono anche le prime esposizioni, con classiche stesure ad olio su tela in cui riproduce scorci di paesaggi e natura. Verso la metà degli anni Sessanta però c’era già qualcosa in lui che spingeva da dentro portandolo a sperimentare anche altri supporti e altre forme, il figurativo classico già gli stava troppo stretto e la sua cifra espressiva andò man mano modificandosi e stilizzandosi. Esemplari sono le opere dedicate alle Madonne, riproducenti il volto della moglie, una sorta di angelo del focolare e facenti parte del primo importante ciclo di pittura dedicato al tema sacro. L’impianto generale, che ricorda icone sacre russe, è rafforzato anche dall’uso della foglia d’oro. La sperimentazione dove saggia la tecnica a spruzzo è di grande interesse ed è determinante per il futuro percorso. Una delle figure più emblematiche sicuramente è la Madonna del 1969 ( Primo Premio al Concorso Nazionale di Pittura d’Arte Sacra, Circolo Professionisti ed Artisti, “G. Esposito”, di Torre Annunziata, con il conferimento della Coppa del Ministero dell’Industria e del Commercio, On. Magrì).

Oltre all’omaggio dedicato alla moglie, ancora una volta Ciro Arcella esprime il proprio rapporto intimistico con il Supremo. La tecnica a spruzzo è tecnica già collaudata nei disegni con figure di nudo femminile, eseguiti con segno sicuro e continuo in china negli stessi anni. In particolar modo nei disegni, fino alla fine degli anni ’60, è evidente la contaminazione tra la tecnica a china e a spruzzo. Lo straordinario risultato ottenuto con l’utilizzo di semplici bottiglie di plastica morbida o pompette con beccuccio saranno sostituite solo nei primi anni ’70 da mezzi tecnici più evoluti come l’aerografo e compressore.

I primi omaggi ad artisti come Mondrian risalgono ai primi anni Settanta e suggellano sia il passaggio ad una pittura non completamente figurativa, che la scelta definitiva della tecnica a spruzzo per la realizzazione di tutte le opere future. Con la fine degli anni Settanta l’autore abbandona definitivamente la tela come supporto ed adotta felicemente lastre di alluminio pretrattate con Primer (aggrappante). Le prime prove su alluminio vanno perdute a causa di un ostacolo tecnico, il colore si staccava dal supporto, per questo la necessità di usare il Primer e di seguire da vicino il lavoro presso carrozzieri, carpendo loro i segreti del mestiere per farli propri. Lo stesso “spruzzo” dovette essere dominato, in quanto le sagome appuntate sulle tele con spilli ottenevano un risultato ottimo, ma quando esse vennero trasportate su lastre di alluminio, al momento della stesura volavano via, non potendole ancorare al supporto.

L’artista decise allora di acquistare un compressore meno potente, risolvendo nell’immediato la difficoltà sopraggiunta. Usava porre la lastra di alluminio su di un piano basso, appositamente congegnato, dipingeva per lo più d’estate, quando la natura offriva i suoi arbusti ricchi e rigogliosi e, non curandosi di sporcarsi, “aggrediva” fisicamente il supporto, in una sorta di Action Painting e soddisfatto poi condivideva il risultato con la sua Famiglia. I colori usati dal Professore durante gli anni in cui viveva a Torre Annunziata, erano colori caldi e rappresentavano esplicitamente il calore della sua Terra, il sole, l’energia del focolare della sua casa e l’amore che lo contornava in tutte le possibili sfaccettature.

Il tema trattato negli anni Settanta è comunque sempre la natura, soggetto a lui caro sin dagli esordi, ma svestita dal suo attaccamento al reale. Prima del 1839, ossia prima dell’invenzione della fotografia, un pittore degno di tal nome doveva conoscere bene l’anatomia e il drappeggio per poter soddisfare la domanda di ritratti, crocifissioni, deposizioni, annunciazioni, etc. Dopo quella straordinaria invenzione cadde la domanda dei ritratti a pennello e l’arte consueta dovette lasciar posto alla nuova espressione.

È certo, in ogni caso, che le rivoluzioni artistiche non furono più il risultato dell’evoluzione della pittura di soggetto religioso, celebrativa o allegorica, come era avvenuto da Giotto in poi, ma dovettero compenetrarsi ed interagire con la modernità. Alla luce di ciò Arcella rifiutò sempre l’idea del pittore imitatore della natura o che produceva opere descrittive iperrealiste, visto che, nel mondo dell’arte visiva, lo stesso risultato si poteva ottenere con l’arte fotografica e il cinema. Questo ragionamento porta Arcella alla rappresentazione mistica dei soggetti che, bensì legati al reale, si amalgamano e compenetrano con profondi stati d’animo vissuti dall’autore e trovano libertà ed espressione attraverso la scelta sempre finemente selezionata e bilanciata del colore. Ogni singolo colore sarà la nota che comporrà, nella sua totalità, la sinfonia ottenuta dalla globalità dell’opera. La realizzazione così ottenuta porta con se precisi messaggi e riproduce emblematicamente i luoghi ricordo della Terra d’origine.

L’accettazione di nuovi luoghi ospitanti fissa, in una sorta di diario di bordo, l’anima, il cuore e le radici della sua vita, ogni singola pulsazione vibra nella continua e ritmica “Ballata del Colore” così rivelata. L’istinto personale porta Arcella a conseguire e raggiungere definitivamente la libertà esecutiva e lo indirizza a staccarsi dalle correnti artistiche che lo circondavano, divenendo così egli stesso uno dei precursori italiani di questa nuova tendenza espressiva. È entusiasmante sentire raccontare le figlie del Professor Ciro Arcella, in merito alla soddisfazione di aver fatto una scoperta: “Ragazze oggi papà ha inventato un nuovo tipo di pittura! La pittura che si può lavare!”. Il significato di questa esclamazione si deve al fatto che ogni volta che portava a compimento un opera usava lavarla con la pompa dell’acqua, per togliere i residui di colore in esubero.

L’uso di mascherine sovrapposte, estrapolate dalla natura o compiutamente realizzate per i cicli dedicati agli uccelli o alle vele, temi che saranno nota distintiva e personale della sua definitiva cifra espressiva, attueranno nell’artista, oltre che la curiosità, anche una profonda applicazione della prospettiva e della profondità, ottenute da un attento studio sulla luce. Ne consegue che il primo colore steso emerge come se fosse stato l’ultimo apposto. Ogni quadro è esaminato ed è emblematicamente figurato nell’immaginario di Arcella, non è frutto dell’istinto, ma di un’attenta indagine cromatica, che principia da un fondo composto da macchie di colore di pura matrice astratta, ospitanti in negativo le sagome da lui prescelte.

L’imprintig figurativo, posto in primo piano, accompagna così il fruitore verso lo spazio informale simbolo di libertà, di elevazione verso il Supremo e pone tutti i dogmi personali rivolti al mistero dell’esistenza. Il ciclo dedicato agli uccelli, che rappresenta energicamente la fine degli anni Settanta, eseguito con mascherine e tecnica a spruzzo su alluminio e bindakote nera presumibilmente ha avuto inizio da un’esperienza personale di quegli anni. La figlia secondogenita, ormai sedicenne, per la prima volta andò in vacanza da sola e come oggetto ricordo del suo viaggio portò al papà il libro: Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach. La scelta della figlia fu dovuta alle meravigliose rappresentazioni fotografiche del libro che volle condividere con il padre. L’idea irrompe nel Professore, dopo la visione di tali rappresentazioni e sfociò nella realizzazione di questo ciclo di pittura, dando una lettura psicologica e simbolica, sia al gesto della figlia che al soggetto prescelto, il gabbiano.

Il gabbiano nella simbologia Cristiana rappresenta la discesa dello Spirito Santo o Spirito di Sapienza, nel mito i gabbiani sono i messaggeri di Dio. Sta di fatto che sia i gabbiani che le colombe hanno un comune denominatore ed è l’annuncio di qualche cosa. Sta a noi captare il messaggio silenzioso, ma possiamo percepirlo solo con i sensi dello spirito e non della ragione, perché quello trascende questa. Il gabbiano è anche simbolo di libertà, perché vola negli spazi sconfinati dei mari e degli oceani. Il protagonista del libro è un giovane gabbiano che compie un viaggio di ricerca interiore verso il senso dell’esistenza, verso l’esperienza e l’accettazione della vita. Innalzandosi sulle onde del mare, questo uccello diventa il simbolo della libertà che non può essere limitata in alcun modo e che conduce all’accettazione totale della propria esistenza.

Forse il Professore aveva maturato l’idea che ormai era giunto il momento di lasciar volare la propria figlia, di farla impadronire della propria vita e, consapevole che il miglior atto di un genitore, è quello di lasciarli volare i propri figli, lui la lasciò volare. Quando i figli sono in grado di spiccare il volo, significa che il lavoro del genitore si è compiuto. Alla figura del gabbiano, che è un uccello di mare, il Professore aggiunse la rondine che è un animale di terra. La rondine rappresenta nel mito il lamento, il dolore, ma nei suoi comportamenti v’è l’usanza di tornare tutti gli anni allo stesso nido. Arcella inserì quest’altro elemento di speranza, per ricordare alla figlia l’importanza della sua casa,  delle sue origini. Nonostante egli non nasconda il dolore di aver dovuto assorbire il distacco dalla sua terra, si nota anche attraverso l’arte che qualche cosa stava maturando in lui.

Ciro Arcella, S'avvia una nave spiegando tutte le vele (W. Whitman)

Ciro Arcella, S’avvia una nave spiegando tutte le vele (W. Whitman)

Negli stessi anni Arcella si dedica ad un altro tema che darà voce al ciclo di pittura “Le Vele”. Le vele raffigurate sono: le vele saracene (vele quadrangolari di origine latina) e a fiocco (vela triangolare). Gli spazi ospitanti questo tema sono dapprincipio il mare e poi, dopo il suo trasferimento a Pordenone nel 1983 fiumi, laghi e lagune del nord, come: la laguna di Marano o il lago di Garda.

Negli anni ’80 ci furono importantissime partecipazioni a mostre personali come a Roma, presso la Libreria “Remo Croce”, nell’81 a “Palazzo Barberini” e al “Chiostro Maiolicato del Monastero di Santa Chiara” a Napoli. Queste esposizioni portarono notevole lustro all’attività artistica di Arcella e gli conferirono un  posto sicuro nella storia dell’arte contemporanea. Dopo il trasferimento a Pordenone per qualche tempo Arcella non si dedicò alla pittura, ma curò altri aspetti del suo sapere. Continuò le esposizioni in alcune Gallerie e a varie mostre collettive. Solo verso la fine degli anni Novanta riprese a pieno ritmo l’attività espositiva in mostre personali.

Riscontrò un grande successo alla mostra personale tenutasi nel 1998 presso la Sala dell’Albo Pretorio a Trieste e nello stesso anno entrò a far parte del  “Centro Friulano d’Arti Plastiche”. I colori delle opere di Arcella, dopo il suo trasferimento in Friuli, risultarono decisamente schiariti e subirono anche un cambiamento nelle tonalità e nella scelta cromatica. Gli smalti prediletti furono in particolare gli azzurri, i verdi e i rosa con le loro naturali gradazioni. Verso la metà degli anni ’90 testa i colori fluorescenti, tanto usati nell’attuale panoramica artistica, a rimarcare ancora una volta la personale curiosità e libertà da qualsiasi influenza lo circondasse.

Arcella non abbandona mai il figurativo per dedicarsi completamente all’informale anche se, a seguito della visita ad una mostra su Kandinsky, tenutasi a “Villa Manin” nel marzo del 2003, il Professore omaggia l’artista con due opere astratte di carattere forte ed energico dal titolo: “Bolle di Sapone” ed “Omaggio a Kandinsky”, eseguite su lastra di alluminio  con smalti nitro-acrilici.

Molte delle opere di Arcella sono titolate con frasi tratte da poesie. La curiosità più affascinante di questo intimo e del tutto personale modo d’agire è che queste frasi venivano scelte solo ad opera finita e non erano fonte di ispirazione per la fase esecutiva. Il costante arricchimento della creatività dell’autore, che lo portava a spaziare dalla letteratura, all’architettura,  poesia e musica, ogni dove si incorporava nelle opere elaborate. Il filo conduttore dei suoi processi creativi era stata sempre la ricerca dell’armonia ricercata nel colore,  in architettura o nel design, ma non solo, ma la sua attenzione era rivolta anche allo studio della luce, dei contrasti e delle contrapposizioni, cosicché ogni macchia, ogni puntino di aerografo non era mai fuori posto, anzi rimbalza all’interno dei quadri, creando una infinita serie di equilibri.

L’orizzonte, sempre presente nelle opere di Arcella, avanza, si dilata, ondeggia elastico quasi all’unisono con il suo respiro e ha tagliato i ponti e bruciato le navi che avrebbero potuto ricondurlo a tutto ciò che lo circondava. Ora è là che risiede, onnipresente e attaccato ancora a questa vita attraverso la gioia del suo colore e della sua luce.

Raffaella Ferrari

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