Pepper, vuoi giocare con me?

Nel reparto di pediatria dell’ospedale di Padova è arrivato Pepper, il robot umanoide in grado di interagire con i bambini.
Una riflessione sul progresso.

Marta Zaetta

Progettato con l’obiettivo di rendere le interazioni con gli esseri umani più naturali ed intuitive possibili, Pepper viene realizzato in Francia e successivamente acquistato da un’azienda giapponese. Dal 2015 è disponibile sul mercato internazionale al costo relativamente accessibile di circa 1.500 Euro (ai quali va, però, aggiunto un canone mensile triennale che si aggira intorno ai 180 Euro per la manutenzione ordinaria e straordinaria). In Europa, Pepper è attualmente impiegato nei punti di accoglienza degli ospedali belga come receptionist.

La sperimentazione presso il reparto di pediatria dell’ospedale di Padova, esperita in collaborazione con la locale Università, si inserisce in un filone di ricerca che ha per oggetto i robot sociali (social robot in Inglese) e si configura come la continuazione della precedente importante esperienza condotta nello stesso ospedale: quella che ha visto come protagonista Nao (il fratellone meno evoluto di Pepper) e che ne ha promosso la piattaforma tecnologica (la NAOqi OS, oggi ereditata dall’ultimo arrivato in famiglia). Lanciato nel 2004 dalla stessa progenitrice francese, Nao ha ottenuto in breve tempo importanti riconoscimenti internazionali attestandosi, nel 2007, sugli stessi livelli di qualità del software raggiunti da Aibo (il cane robotico dalla Sony) e superandolo negli anni a seguire.

Dal 2009 Nao gareggia per conto della Sony alla RoboCup, una competizione internazionale annuale di automi il cui evento principale consiste in una partita di calcio giocata da robot completamente autonomi, in nessun modo controllati da remoto.
Senza la pretesa di essere esaustivi, possiamo descrivere Pepper come un complesso aggregato di svariate componenti hardware e software di ultimissima generazione (microfoni direzionali per il riconoscimento vocale, videocamere 3D e HD per la rilevazione del linguaggio del corpo, ruote multi direzionali per il movimento con relativa rete di sensori per l’individuazione degli ostacoli, costante connessione Internet, tablet incorporato per l’interazione, ecc.) in grado di raccogliere enormi quantità di dati sul suo interlocutore e di elaborarli ed interpretarli al fine di dedurne lo stato d’animo: un condensato di 120 centimetri di altezza per 28 chili di peso con un’autonomia di 12 ore.

Al di là della già di per sé stupefacente indipendenza nel movimento, dunque, ciò che rende Pepper speciale è la sua “socialità”, la capacità adattiva dell’androide di instaurare un’interazione con il suo interlocutore: ascoltarlo, comprenderlo, (ri)conoscerlo e, quindi, “reagire di conseguenza”. Se l’emozione percepita ed identificata è la tristezza, Pepper tenterà di consolare; se è l’allegria, tenterà di condividere il sentimento.
A questo punto, dal campo dell’ingegneria elettronica e informatica siamo costretti a passare attraverso il campo delle scienze umane e sociali e soffermarcisi per almeno una breve riflessione: cosa significa “reagire di conseguenza”? Può essere la reazione di un buon interlocutore determinata a priori, progettata e calcolata?
In un lavoro intitolato “Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri” (pubblicato in Italiano nel 2011 dalla casa editrice Codice di Torino) Sherry Turkle, professoressa di Social Studies of Science and Technology al MIT di Boston, muove una forte critica all’utilizzo dei robot sociali, da lei descritti come “macchine specificatamente progettate per dare l’illusione agli uomini di essere compresi”.

Il suo saggio è il risultato di una serie di interviste, raccolte negli anni (negli Stati Uniti), incentrate sul rapporto persona-tecnologia. In particolare, la professoressa Turkle individua nelle parole dei suoi interlocutori il forte bisogno di essere ascoltati che non trova risposta in un mondo povero di attenzione, in cui ciò che conta è “la connessione perpetua a qualsiasi cosa”. L’autrice descrive la conseguente e ricorrente necessità di desiderare “un robot per amico”, espressa dagli intervistati, come una “dolorosa verità” che elide una condizione fondamentale per lo sviluppo della capacità auto-riflessiva della persona: “il non voler mai rimanere soli”.

La fuga da se stessi, che si manifesta per l’autrice anche in quella che appare una deliberata volontà di astenersi dal coltivare rapporti faccia a faccia (“la relazione umana è ricca, caotica e faticosa”), intacca gravemente la capacità di auto-coscienza e di naturale (ri)definizione dell’identità del soggetto (bambino o adulto che sia), traghettandolo, inesorabilmente, verso il vero isolamento: più si è connessi, più si è isolati perché si è distratti e lontani da se stessi.

Le considerazioni dell’autrice appaiono interessanti e provocatorie, soprattutto se lette in un’ottica di “abuso” della tecnologia. Ma, in questo senso, un aspetto fondamentale da considerare è che il progresso è difficilmente arrestabile. Si rende, quindi, necessaria la ricerca di una prospettiva più ampia.
Già nel 1939 Isaac Asimov (professore di biochimica, ricercatore e divulgatore, nonché noto romanziere fantascientifico) scriveva un racconto intitolato “Robbie” (verrà più volte pubblicato, in diverse modalità, negli anni successivi) in cui narrava la storia dell’inevitabile e, in parte, contrastata amicizia tra una bambina e il suo androide.

L’idea di Asimov è quella di muovere una critica alle considerazioni negative (già molto diffuse all’inizio del XX secolo) che identificano il robot come una minaccia per l’umanità, al fine di conferire agli androidi un ruolo di sostegno alla collettività anche in riferimento alla loro versatilità. Ma è in “Tecnofobia” (estratto XVI di una raccolta di riflessioni intitolata “Il vagabondo delle scienze”, pubblicata nel 1985 da CDE, Milano) che troviamo una considerazione tanto marginale quanto calzante in questo contesto: l’Asimov scrittore racconta la sua personale difficoltà nel dover affrontare la sostituzione della cara vecchia macchina da scrivere con l’allora nuovo computer. In una sorta di dialogo interiore (quello che pare mancare negli intervistati dalla Turkle) Asimov analizza la questione di cui riporto a seguire una mia sintesi: “il computer assolve il compito meccanico di scrivere più semplicemente e velocemente, ma, non avendo effetto alcuno sulla qualità di quel che scrivo, posso continuare ad evitarlo. D’altra parte, se gli editori cominceranno a richiedere i pezzi con più velocità, sarò costretto ad utilizzarlo, pena la non remunerazione”.Al progresso, insomma, non si sfugge ed è precisa responsabilità dell’uomo analizzare o, quantomeno, riflettere sull’innovazione e sul cambiamento che esso porta con sé.

La tecnologia ed il progresso, per quanto complessi e travolgenti, non possono essere subiti. In caso contrario, lo stesso Asimov, nel 1986 in “Fondazione e Terra”, scriveva: “Una società che dipende totalmente dai robot, si può dedurre facilmente, diventa debole e decadente, si spegne e muore per noia o, volendo essere più sottili, perché le viene a mancare la voglia di vivere”.

Marta Zaetta, collaboratrice di SocialNews

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