Bikini, Burqa e Burkini. Paradossi contemporanei

burkini

burkini e bikini

Era la fine del diciottesimo secolo quando in occidente alcune prime timide apparizioni in spiaggia obbligavano le donne ad abiti ampi e lunghi fino alle caviglie. Nel 1907 la nuotatrice australiana Annette Kellerman fu arrestata per aver indossato un “burkini” completo ma che lasciava le braccia scoperte ed evidenziava le forme del corpo. Fu solo negli anni ’40 e ’50 che l’abito da spiaggia femminile iniziò ad accorciarsi progressivamente. Non è passato molto tempo e la questione si ripresenta ma – a differenza della cristianità del secolo scorso – i dettami islamici devono confrontarsi con l’attuale cultura occidentale prevalentemente laica. L’indumento, che tanto di sé fa parlare oggi, rimanda a quell’integralismo islamico che si manifesta la propria espressione peggiore nella repressione della libertà della donna.
Per la cultura islamica, quest’ultima deve essere coperta con abiti più o meno castigati per evitare che possa essere motivo di attrazione per l’uomo. Probabilmente è una forma di oppressione per limitare il potere femminile della seduzione. Ma a sentire alcune osservazioni femminili – più o meno spontanee – può garantire loro la sicurezza di evitare approcci indesiderati da parte del genere maschile.
La parola burkini nasce dalla fusione di due parole che caratterizzano costumi culturali opposti: il bikini e il burqa. Il burkini è una sorta di costume da bagno che copre tutto il corpo femminile. E’ nato da un’idea di Aheda Zanetti, una designer australiana di origine libanese. Nel 2003 fondò la Ahiida Pty Ltd, la società che oggi lo produce ed è un marchio registrato. In una una decina d’anni la domanda è progressivamente cresciuta raggiungendo i cinquecentomila costumi venduti. La prima volta che si parlò di questo indumento fu il 2011, quando Nigella Lawson, una giornalista non musulmana ne indossò uno in Australia, a Bondi Beach per proteggersi dal sole e dal rischio di melanoma. Il burkini cominciò ad essere usato dalle ebree ortodosse, induiste e cristiane mormone fino a quando il marchio britannico Mark&Spencer iniziò a venderlo nei propri negozi. Ma la fama arrivò solo questa estate quando, in Francia, tre sindaci decisero di vietarne l’uso sulle spiagge dei loro comuni.
Dal 2010 la Francia vieta di indossare per motivi di ordine pubblico e sicurezza il burqa o niqab che copre integralmente il viso di una donna e sono vietati gli accessi alle spiagge cittadine «a chiunque non indossi una tenuta corretta, rispettosa delle buone maniere e della laicità, delle regole d’igiene e sicurezza della balneazione». Com’era prevedibile, alle ordinanze di divieto del burkini non sono mancate le reazioni indignate della comunità islamica locale e di alcune associazioni che si sono dette pronte a portare il sindaco davanti al giudice per “islamofobia”. Il Burkini infatti lascia il viso scoperto: questa tenuta non infrange la legge sul velo integrale e sulla morale in genere. Ma la popolazione francese vive il burkini in spieggia come una provocazione sociale. Il burkini viene visto come il tentativo delle componenti più estremiste dell’Islam d’imporre il loro modello in tutti i settori della nostra società. La Francia è più esposta a contrasti di questo tipo sia per aver recentemente subito gli attacchi terroristici dell’estremismo islamico sia per l’alta percentuale di popolazione di credo mussulmano di prima, seconda e terza generazione residente nel suo territorio.
E’ necessario però fare alcune riflessioni sull’argomento. Soprattutto in Francia è necessario smorzare ogni possibile contrasto fra culture ed etnie religiose. I mussulmani sono il 10% della popolazione, ha il più grande numero di islamici nell’Europa occidentale. Alzare i livelli di conflitto fra le comunità mussulmane e il resto della popolazione mette a serio rischio la sicurezza nazionale ed anche quella europea. Inoltre dobbiamo comprendere le ideologie e le abitudini delle varie fazioni interne al mondo musulmano. Non solo cosa pensano gli sciiti e i sunniti moderati che che non hanno nessun problema a presentarsi in spiaggia e piscina con i normali nostri costumi balneari, ma anche dei minori gruppi settari rigidi estremisti dell’interpretazione coranica. I salafiti ad esempio prestano particolare attenzione all’aspetto estetico, gli uomini portano una barba lunga e indossano pantaloni che lasciano scoperte solo le caviglie. Le donne indossano invece il niqab, il velo che copre il volto lasciandone visibili gli occhi e non hanno nessuna opportunità di presentarsi in spiaggia, anche con il burkini.  L’evidenza di questo lo fa sul suo account twitter, Abu Hammâd Sulaiman Al-Hayiti, esponente di spicco dei salafiti: “il burkini è un falso problema: non può essere permesso perché è contrario alla Sharia”. Diversamente la pensa l’altra fazione sunnita radicale – gli wahabiti – che considerano il burkini come possibile soluzione alla presenza balneare delle donne musulmane.
La separazione dei sessi è comunque alla base dell’organizzazione della vita pubblica dell’estremismo islamico. Nei paesi musulmani conservatori le donne non vanno al mare con gli uomini. L’imposizione è quella di coprirsi con abiti larghi che impediscano l’evidenziazione delle forme femminili: burqa, hijab, chador o niqab. Il burkini asciutto o bagnato aderisce invece al corpo della donna segnandone le forme. Quindi nelle comunità islamiche radicali il suo utilizzo può essere segno di apertura piuttosto che di radicalizzazione.
Grazie alla frequentazione delle spiagge le donne musulmane potrebbero avere l’opportunità di divertirsi, socializzare e di percorrere l’inizio di una strada verso l’emancipazione altrimenti preclusa.
Vietare il burkini potrebbe invece indurre una maggiore radicalizzazione proprio perchè ridurrebbe alla donna le occasioni per poter condividere aspetti ludici con il sesso opposto.
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Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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