La crisi senza fine della rappresentanza

Senza entrare nel merito dell’analisi del voto, l’esito (per molti sorprendente) del Brexit non può che invitare a una riflessione di ampio respiro: i rappresentanti politici e i leader economici internazionali hanno compreso la crescente richiesta di cambiamento? E sono in grado di dare una risposta efficace, senza danneggiare irreversibilmente il sistema politico-economico in essere?

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Con questi interrogativi Ian Bremmer chiude il suo editoriale del 24 giugno sul Time. “Questo è stato un voto contro l’intera classe politica“. A nulla sono valse le disastrose previsioni dei “pro-Remain, britannici e non: politici, economisti, banchieri, attivisti, accademici, star del cinema, membri del clero, presidenti uscenti e candidati in corsa non hanno convinto la maggioranza degli elettori britannici. Niente di nuovo né circoscritto al Regno Unito ricorda Bremmer: che i partiti populisti francesi, tedeschi, italiani, spagnoli, portoghesi, greci, olandesi, svedesi, danesi, austriaci, polacchi e ungheresi stiano rullando gli stessi tamburi con veemenza da un po’ non è certo una novità. La Gran Bretagna ha preso la sua decisione e ora dovrà affrontarne le conseguenze.

L’esito del Brexit e la diffusione dell’euroscetticismo sono sintomi di una “crisi senza fine della rappresentanza” che affonda le sue radici in fattori anche strutturali, eterogenei e complessi. Già nel 2009 Yves Sintomer evidenziava, tra le altre cause, “l’impotenza della politica” che iniziò a farsi sentire dalla metà degli anni Settanta quando le misure adottate per affrontare i cambiamenti socioeconomici in atto elusero le  necessità delle fasce più disagiate della popolazione: la progressiva precarizzazione del lavoro, l’aumento della disoccupazione e il conseguente allargamento della forbice delle diseguaglianze sociali portarono a un progressivo disinteresse e allontanamento dalla politica stessa. Secondo Sintomer il “nuovo regime di accumulazione del capitale” fece il gioco della finanza e le politiche neoliberali, disattendono gli obiettivi di crescita vigorosa che si erano prefissate, acuirono l’entità delle disparità e il montare di bolle finanziarie: “I Welfare States nazionali si sono indeboliti a causa dei progressi della globalizzazione economica, senza che al loro posto abbia preso forma un’Europa sociale che a malapena mostra di esistere. […] L’assenza di una politica economica europea degna di tal nome è l’espressione più evidente dell’inconsistenza di un livello superiore. […] la politica sembra cedere il passo a una governance che è depoliticizzata solo in apparenza, visto che certamente si fonda su un ampio consenso da parte degli “esperti” economici, ma i cui vantaggi sono riservati esclusivamente alle classi privilegiate” (Sintomer, Y., Il potere al popolo, Dedalo, Bari, 2009).

Alla luce di tutto ciò, può essere utile oltre che interessante fermarsi a riflettere sul significato di “Europa” e sulle motivazioni che hanno spinto gli intellettuali e i politici del primo dopoguerra (dai liberali ai socialisti) a concepire, ispirandosi al pensiero federale e al progetto kantiano “per la pace perpetua“, la proposta di una “confederazione di stati europei”. A tale proposito segnaliamo la ricostruzione fresca e puntuale di Fiore, una giovane youtuber, che partendo da Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre, passando attraverso Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, approda al Maifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann.

Siamo nell’immediato secondo dopoguerra quindi si pensa ad un’Europa intesa come “patto” per evitare ulteriori conflitti militari ma anche come “accordo” per la ricostruzione post bellica (la già ridotta capacità di orientare l’economia nazionale è ulteriormente inficiata, in quegli anni, dall’affermazione delle multinazionali che, per definizione non sono soggette alle leggi statali).

Concludendo, molti sono i parallelismi che possono essere tracciati in riferimento al contesto attuale: mentre l’Europa si sfalda e i nazionalismi dilagano, gli uomini più ricchi (e potenti?) del mondo riconfermano le loro posizioni, con Bill Gates ancora in testa.
Ma è proprio questa la democrazia, bellezza?

di Marta Zaetta,

Redattrice di SocialNews

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