Chi cammina sulla mappa

Riprendendo le riflessioni di “Geografia” di Farinelli, ci rendiamo conto che le persone, fino a quando non le conosciamo, sono cose. In quanto tali, attribuiamo loro un’identità in base a dove si trovano. Che succede nel caso di una migrazione?

Chiara Pacini

immigrationCapita, in certi momenti della vita, propria o del Mondo, di riprendere in mano un libro, un articolo, una frase. Vi si scovano nuovi significati alla luce degli eventi che segnano quel momento che noi, o il Mondo, stiamo vivendo. Forse, è meglio dire che capita che il libro o l’articolo o la frase si prestino ad essere riletti in funzione degli ultimi eventi e siano in grado di suggerirci qualcosa in più, orientando la nostra percezione e la nostra comprensione. In questo pezzo di vita del Mondo, a livello mediatico e sostanziale caratterizzato da grandi migrazioni di persone in fuga da guerre, miseria, terrorismo e terrore, da abusi e da regimi, può capitare di rileggere Geografia di Farinelli, che di tutt’altro si occupa, e trovare anche tra le sue parole qualcosa che ci fa tornare in mente il triste racconto del presente, dalla cui cronaca, per un attimo, ci eravamo distratti.
“Per troppo tempo si è creduto che la geografia fosse il sapere relativo a dove le cose fossero, senza accorgersi che, in realtà, nell’indicare questo, la geografia decideva che cosa le cose erano”. Conoscendo il dove si decide il cosa…
Le persone sono cose.

Finché non le incontriamo faccia a faccia, una per una, fuori dalla collettività dell’idea di “gente”, finché non riconosciamo ad ognuna il possesso di un volto e la capacità di raccontare la propria identità attraverso il linguaggio, le persone sono cose.
E a queste cose, come a tutte le altre, attribuiamo una diversa identità (un diverso che cosa) a seconda del dove le possiamo collocare sulla mappa.
Sulle mappe compaiono linee, a volte contorte, altre perfettamente e arbitrariamente tracciate dalla Storia con la squadra. Queste linee descrivono confini.

La persona-cosa che, guardando la mappa, possiamo immaginare chiusa all’interno di questi confini (che spesso il noi ha deciso, a cui il noi ha di volta in volta attribuito significati), viene immediatamente definita a partire dal concetto di nazionalità.
La persona in movimento, che non rispetta questi confini nostri, del noi che guarda la mappa e vi impone le mani pensando (pretendendo) di esercitare un potere sul mondo, la persona che questi confini li attraversa “alla faccia nostra”, governatori dello spazio globale, inesperti dei luoghi, che del Mondo osserviamo dall’alto la cartografia, ma non cogliamo l’essenza, la persona che, stando dentro la geografia piuttosto che sopra di essa non riconosce più il senso di una linea tracciata sulla mappa, questa persona cambia, ai nostri occhi, la sua essenza. Il suo che cosa non è più descrivibile nei maneggevoli (addomesticati) termini della nazionalità.
E la persona diventa “migrante”.
La sua fisionomia non è più immaginata a partire da canoni, schemi (o stereotipi) facili e consueti, ma diventa qualcosa di tanto complesso da frustrare la nostra capacità di comprensione che, nell’arrabattarsi quotidiano col pensiero, esige scatole chiuse nelle quali catalogare i suoi oggetti, perché la mente possa muoversi agevolmente tra essi e, infine, dominarli. Del resto, non è forse questo ciò che l’uomo ha fatto tracciando linee sul planisfero? Porzionare il Mondo per poi poterlo pensare e maneggiare, casella per casella, con tutte le pedine in esse contenute? Forse, il divide et impera potrebbe avere anche questo significato. Finché Khan stava in Afghanistan poteva essere un Talebano o, viceversa, una vittima. Nel primo caso gli avremmo attribuito un severo volto barbuto, nel secondo, probabilmente, il volto di un bambino. Forse, qualcuno sarebbe stato in grado di evitare il più possibile stereotipi e pregiudizi e si sarebbe raffigurato un Khan estraneo a questa polarità. Avrebbe comunque pensato a “Khan l’afghano” attribuendogli certi supposti tratti derivanti dall’idea di “carattere nazionale”.

Ora che Khan ha lasciato Kabul per camminare sul planisfero, è diventato ai nostri occhi “Khan il migrante”. Quasi nulla rimane di quell’identità che gli avevamo precedentemente attribuito: l’oggetto del nostro pensiero si è ribellato ai confini della scatola chiusa nella quale l’avevamo catalogato.
Urge, quindi, una nuova catalogazione! Ma in questa Khan verrà assimilato a Said, che ha iniziato a camminare a Damasco, o a Senay, che da Asmara ha raggiunto le coste libiche per imbarcarsi…
Ora che il viaggio è finito, ma che ha fatto in tempo a spogliarli di un’identità per cucirgliene addosso un’altra che deriva dal viaggio stesso e dall’arroganza con cui a noi disegnatori di mappe sembra l’abbiano affrontato, ora stanno tutti nella grande scatola chiusa di qualche centro d’accoglienza sotto l’etichetta di “migranti”.
Noi, invece, arranchiamo con il pensiero, affaticati dal dover capire il che cosa di queste persone che non hanno più un dove a descriverle.

Chiara Pacini, collaboratrice di SocialNews

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