Accanto al figlio autistico

Il parent training nasce come programma d’intervento a favore dei genitori. Tecnicamente viene descritto come un “programma che vanta la specifica finalità di rivolgersi ai genitori con figli in situazioni problematiche ed è incentrato su un percorso relazionale con un trainer”.

Cristina Piras

Il riconoscimento dell’autismo come disturbo è relativamente recente. Pur descritto per la prima volta nel 1943 dal dottor Leo Kanner, solo nel 1980 è diventato ufficialmente una diagnosi. Per definizione, l’autismo è una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti ed alla capacità di stabilire relazioni con gli altri. Si configura, pertanto, come una disabilità che accompagna il soggetto nel suo ciclo vitale, anche se le caratteristiche del deficit sociale assumono un’espressività variabile nel tempo. Sono state individuate diverse condizioni possibilmente associate all’autismo, tra le quali la fenilchetonuria, la rosolia congenita, la sclerosi tuberosa e la sindrome dell’x fragile.

Tuttavia, studi approfonditi hanno condotto a riconsiderare l’entità di queste associazioni. Al momento, le più forti sono con la sindrome dell’x fragile e con la sclerosi tuberosa. Va, altresì, tenuto conto del fatto che, in circa il 30- 40% dei casi, si verifica l’epilessia nel primo triennio di vita. Ciò induce a considerarli epifenomeni di un comune danno encefalico. Il sistema diagnostico utilizzato con maggiore frequenza è il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association, giunto alla sua quinta edizione ed indicato con l’acronimo DSM V. L’idea iniziale, ed errata, che l’autismo fosse più comune nelle famiglie in cui i genitori erano persone affermate, portò negli anni ‘50 alla conseguenza molto infelice di incolpare la madre delle difficoltà del bambino. Negli anni ‘70 la ricerca iniziò a dimostrare che l’autismo era un disturbo su base cerebrale ed i dati più attendibili indicano che si tratta di un disturbo neurologico con una forte componente genetica.

Ad oggi, i riscontri epidemiologici hanno spinto diversi gruppi di ricerca ad individuare i geni coinvolti nel determinismo dell’autismo. L’evidenza più forte emersa da tali ricerche è che non esiste “il gene” dell’autismo. Esistono, piuttosto, una serie di geni che contribuiscono a conferire una vulnerabilità verso la comparsa del disturbo. I loci genici di maggiore interesse sono stati individuati sui cromosomi 2, 7, 16 e 17.

Il concetto di vulnerabilità ci riporta al ruolo fondamentale dell’ambiente nell’attualizzazione della stessa. L’ambiente, infatti, va considerato sia nella sua capacità di incidere “direttamente” sul genotipo, condizionando il complesso meccanismo di interazione genica, sia “indirettamente” slatentizzando un assetto neurobiologico geneticamente inadeguato all’elaborazione ed alla metabolizzazione degli stimoli normalmente afferenti al sistema nervoso centrale.

Contrariamente a quanto accaduto negli anni ‘50, un numero ampio e crescente di ricerche e studi clinici ha dimostrato con forza l’importanza del coinvolgimento attivo delle famiglie per affrontare il disturbo, in quanto componente essenziale dello sviluppo di programmi d’intervento efficaci.

Il tipo particolare di stress, difficoltà e successi che la famiglia del bambino con autismo vive varia in relazione a molteplici fattori. I bambini con basso livello cognitivo e scarse abilità comunicative pongono maggiori problematiche. Per le famiglie che dispongono di poche risorse, fronteggiare questa situazione può essere più difficile. Lo stesso processo diagnostico è pesantissimo da reggere. A volte, la prima reazione è di shock e impotenza. Alcuni genitori sperimentano un grave senso di perdita e lutto per il figlio idealizzato che non hanno avuto e che tutti vorrebbero. In alcuni casi, la rabbia può trasformarsi in risentimento. I comportamenti problematici possono essere molto difficili da gestire. Altri ostacoli possono nascere dalla difficoltà a generalizzare gli apprendimenti, in particolare nella comunicazione sociale, e dal linguaggio atipico. La mancanza di feedback da parte del bambino può essere problematica e rispecchiare difficoltà di fondo nell’elaborazione. Le difficoltà comportamentali e comunicative possono essere causa di ulteriore stress ed imbarazzo per i genitori, dando luogo ad un circolo vizioso, in seguito al quale bambino e famiglia si trovano isolati. Quando il bambino raggiunge l’età scolare, spesso le difficoltà comportamentali si sono ridotte ed i genitori hanno appreso modalità più efficaci per gestirle. L’adolescenza e l’età adulta portano con sé tutte le consuete difficoltà associate a queste fasi della vita. È in questo periodo che si fanno più chiare le prospettive per la vita futura: gli studi, l’autonomia, il lavoro e quanto gli anni a seguire possano riservare una volta che i genitori non ci saranno più.

Quanto sin qui descritto dà la misura della complessità della situazione e pone l’urgenza per un intervento che dev’essere precoce, intensivo e curricolare. L’intervento non può rivolgersi solo al diretto interessato, ma anche al suo contesto primario: la famiglia d’appartenenza.

Il parent training nasce come programma d’intervento a favore dei genitori. Tecnicamente viene descritto come un “programma che vanta la specifica finalità di rivolgersi ai genitori con figli in situazioni problematiche ed è incentrato su un percorso relazionale con un trainer”. Nei Paesi anglosassoni, la cultura del parent training è affermata da tempo e la trasmissione di competenze educative, anche come prevenzione primaria, è largamente diffusa negli Stati Uniti, in Inghilterra e nei Paesi dell’Europa centro-settentrionale. In Italia, invece, si assiste in tempi più recenti alla diffusione di iniziative che si rivolgono ai genitori allo scopo di aumentarne il bagaglio informativo nell’ambito prescelto. I programmi differiscono a seconda dei diversi approcci metodologici del trainer e degli ambiti di applicazione, ma tutti hanno in comune la focalizzazione dell’intervento sui genitori.

Gli ambiti sono molteplici e compito del trainer è anche quello di calibrare l’intervento in base alle variabili che intervengono, quali, ad esempio, lo svantaggio culturale, il basso livello d’istruzione, l’appartenenza a minoranze etniche, ecc.

Nella mia esperienza ultraventennale, ho ritenuto l’approccio psicoeducativo il più confacente tra i vari proposti perché è quello che garantisce un’ampia prospettiva nella valutazione delle variabili dei diversi processi considerati.
Sinteticamente, possiamo affermare che:
– riflette meglio le diverse sfaccettature dell’autismo;
– consente un intervento più ampio della semplice trasmissione di abilità educative/gestionali;
– facilita la relazione dialettica operatori/fruitori;
– garantisce un percorso parallelo tra bambino in terapia e famiglia.
Vertendo sulla continuità degli interventi, l’approccio psicoeducativo favorisce la valorizzazione di idee e soluzioni proposte da tutti, contribuendo al rafforzamento dell’autostima ed al senso di autoefficacia.

Il programma di parent training nell’autismo da me condotto nello Studio psico-pedagogico-clinico della Dottoressa Valeria Porcu a Cagliari è strutturato in sedici incontri più due di approfondimento e prevede la somministrazione del materiale a casa per entrambi i coniugi. Il materiale fornito durante gli approfondimento su qualche aspetto specifico. Tale materiale assume almeno due significati: il primo è quello di affrontare le conoscenze condivise sull’autismo; il secondo è quello di dotare tutti i partecipanti di un lessico in grado di aiutarli ad esprimere le proprie difficoltà, le paure e gli stati d’animo. Nel corso dei diversi incontri vengono elaborate autovalutazioni sul ruolo del genitore e sul distress personale e familiare, viene descritto come funziona l’apprendimento del bambino autistico, vengono esaminati i pensieri disfunzionali e i comportamenti-problema e ci si focalizza sulla gestione razionale delle emozioni e sul problem solving.

Il primo ciclo di parent training si chiude con un cenno alla resilienza quale obiettivo da raggiungere, che diventa, invece, il tema portante del secondo ciclo. Lo spessore e l’importanza di quest’ultimo punto necessitano di una descrizione approfondita che, in questa sede, non è possibile sviluppare.
Per chi fosse interessato a saperne di più, segnalo come massimo esperto internazionale Boris Cyrulnik e, per il panorama italiano, Elena Malaguti.

Cristina Piras, Presidente Associazione Culturale Larghevedute No Profit.

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