La Questione Curda e la Carta del Rojava

Mauro Farina

Ad oggi, i Kurdi sono divisi fra Turchia, Iran, Iraq e Siria, oltre ad alcune enclaves in Armenia e Nagorno-Karabakh.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, l’Impero ottomano crollò e la questione kurda riesplose. Il Trattato di Sèvres (1920), firmato dalla Turchia e dalle potenze alleate, conteneva promesse di indipendenza che divennero lettera morta nel momento in cui si seccò l’inchiostro usato per firmare il pezzo di carta. Inghilterra, Francia e, tanto meno, Turchia, non avevano alcuna intenzione di concedere ai Kurdi un Stato tutto loro. Lingua e cultura curde vennero proibite, a dispetto dell’articolo 39 del successivo trattato di Losanna (1923). La reazione fu istantanea: si originò un movimento di resistenza che, nel periodo compreso tra il 1927 ed il 1930, proclamò la nascita di una Repubblica, subito repressa dall’esercito turco. La popolazione kurda venne “turchizzata” e denominata “Turchi delle montagne”. I Kurdi iracheni, rivoltatisi negli anni ‘60, si sono trovati in costante conflitto con l’Iraq, soprattutto a causa del centralismo e del dispotismo imposti dal partito nazionalista pan-arabo Ba’ath, al potere dal 1968. L’Iran, pur continuando ad opprimere i “suoi” Kurdi, li sostenne in funzione anti-Saddam Hussein. Baghdad punì questa ostilità con razzie e armi chimiche.
Nel contempo, la regione autonoma curda, nata nel nord dell’Iran sull’onda del rovesciamento dello scià, nel 1979, fu stroncata non appena il regime teocratico iraniano ne ebbe la forza. In Iraq, dopo la sconfitta di Saddam Hussein nella Prima Guerra del Golfo, i Kurdi si ribellarono ancora. La rivolta scoppiò nelle città industriali e petrolifere del nord Suleymania e Kirkuk. Gli operai formarono delle shoras (consigli), ma vennero subito schiacciati dalla Guardia Nazionale repubblicana, risparmiata dal comando USA perché s’incaricasse del “lavoro sporco” contro insorti e ribelli di vario genere. Una volta schiacciata la ribellione, gli USA crearono una “zona franca” kurda in Iraq. Dal 1994 al 1998, le due fazioni principali – il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) di Barzani e l’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) di Talabani – combatterono una guerra sanguinosa per il potere. All’inizio, il PKK proclamò l’obiettivo di formare uno Stato che unisse i Kurdi di Turchia, Iran, Iraq e Siria. Tale prospettiva venne subito ritenuta inaccettabile dagli Stati occidentali e dai regimi della zona: consentire ai Kurdi di formare uno Stato indipendente significava creare un precedente foriero d’instabilità. Per questo motivo, gli Stati Uniti appoggiano i Kurdi iracheni, ma mai permetterebbero loro di costituire uno Stato sovrano. Il popolo curdo non può riporre fiducia in alcuna potenza mondiale, anche se, periodicamente, alcune di esse sembrano schierarsi apertamente a suo favore. I giacimenti petroliferi e le ricche miniere di altri minerali accentuano le pressioni imperialiste sul Kurdistan. Negli anni ’90, Abdullah Ocalan, il leader del PKK ora imprigionato in Turchia, abbandonò la rivendicazione dell’indipendenza del Kurdistan, appellandosi all’Unione Europea per vedersi riconoscere una limitata autonomia. Dal 2012 si susseguono vuoti negoziati col Governo Erdogan proprio su questo tema.
Ciò ha spinto la direzione del PKK a mostrarsi timida quando, nel 2013, divampò la protesta contro lo stesso Erdogan dopo i fatti di Gezy Park. La posizione della dirigenza PKK è stata sistematizzata teoricamente da Ocalan, il quale ha abbracciato l’idea del “con federalismo democratico” prendendo a prestito le riflessioni sulla “Democrazia partecipativa” del pensatore eco-anarchico Bookchin.
Il “Confederalismo democratico” – anche quello della “Carta del Rojava” – propone una vita politica plasmata dall’etica, ma glissa sulla proprietà dei mezzi di produzione. Peraltro, poiché il Kurdistan rappresenta un’area dotata di strutture sociali arcaiche, l’orientamento municipalista – contrario all’egemonia di una classe, anche quella proletaria, in nome d’un astratto pluralismo – finirebbe per consegnare il potere, specialmente nelle aree agricole, ai clan ed ai gruppi influenti della zona. La politica attuale del PKK rimuove le ragioni delle passate sconfitte del movimento nazionale: appellarsi continuamente all’Unione Europea ed al suo presunto senso morale emargina in un vicolo ancora più cieco la lotta indipendentista. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una lotta indipendente da parte delle milizie del PKK e dei Siriani del PYD. I Peshmerga iracheni hanno combattuto soltanto per il controllo delle aree ricche di petrolio sottostanti al Governo autonomo di Barzani e per conquistare Kirkuk. Ad agosto, mentre i Kurdi yezidi venivano sopraffatti dalle truppe dell’ISIS, i Peshmerga se la sono svignata. La loro fuga da Sinjar è stata confermata anche da numerose testimonianze di Yezidi pubblicate dal quotidiano tedesco Der Spiegel. Senza l’intervento di altre formazioni kurde, siriane e turche, sconfinate in Iraq, la tragedia degli Yezidi avrebbe assunto contorni ancora maggiori.
La stessa liberazione dall’ISIS di Maxmur, Kurdistan iracheno, è stata opera di queste milizie intervenute in un secondo tempo.
Le direzioni politiche kurde di sinistra vorrebbe trovare un’intesa con i partiti contrari all’indipendenza nazionale e sociale. Il Medio Oriente presenta una catena intricata e sanguinosa di conflitti dalla quale sarà impossibile liberarsi fino a quando non rinascerà un movimento di massa degli oppressi contro l’imperialismo, i suoi fantocci e le cricche borghesi locali responsabili delle barbarie.

Mauro Farina, collaboratore di SocialNews

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