“Curdi tra noi”, un Festival per conoscerli

A Pordenone si tiene la quinta edizione di un Festival unico in Italia: attraverso il cinema, si propone di raccontare la storia di un popolo

Ludovica Cantarutti

ImmagineUn Festival cinematografico
Si intitola “Curdi tra noi” il Festival del cinema curdo che si svolge da cinque anni a Pordenone. L’intenzione è quella di svelare, principalmente attraverso la cinematografia, in questo caso l’arte più idonea, alcune delle caratteristiche di un popolo senza Nazione, “spalmato” fra Turchia, Iraq, Siria, Armenia ed alcune zone dell’ex Unione Sovietica. Non abbiamo usato a caso la parola svelare: dei Curdi poco si sapeva, almeno fino a quando non sono diventati attori principali della campagna
bellica contro l’Isis. L’iniziativa di questo Festival è dell’associazione “via Montereale” di Pordenone, su ispirazione di colei la quale è diventata la madrina del Festival, la studiosa Mirella Galletti, docente di Storia dei Paesi Islamici all’Orientale di Napoli e prematuramente scomparsa. Il Festival è dedicato a lei.
L’associazione pordenonese lavora da oltre quindici anni sulla sensibilizzazione alle culture lontane, intendendo per tali quelle diverse dalla nostra, con progetti a medio e a lungo termine.
Nulla di meglio della cultura quale veicolo di conoscenza, ma anche percorso per un’autentica integrazione. Alcuni esempi di culture lontane? Tuareg, Armeni, Curdi, Cileni, Malgasci, Creoli.
Cinque edizioni di un Festival nato in sordina e che ha l’ambizione di proporre, come ha già iniziato a fare, non solo i film che raccontino il Kurdistan e la sua gente, con le problematiche ed i difficilissimi equilibri, ma anche letteratura ed incontri a tema.
Un Festival, peraltro, unico in Italia, visto che quello analogo di Roma, presente per alcune stagioni con proiezioni e dibattiti, ha chiuso i battenti due anni fa.

L’edizione 2015
Quest’anno, il Festival (documentato, come il resto dell’attività dell’associazione, sul periodico Cicoria) ha confermato la svolta già timidamente manifestatasi nel 2014. La scorsa edizione, infatti, è stata caratterizzata da un premio internazionale (intestato all’indimenticabile Mirella Galletti) da assegnare ogni due anni (alternato ad un premio per una tesi di laurea su cultura e civiltà curda) che una speciale giuria ha attribuito alla giovane regista curda turca residente a Londra Mizgin Mujde Arslan. L’artista ha portato a Pordenone due piccoli film espressione del tentativo di “raccontare oltre la lotta armata”, rinnovando, in un certo senso, la precedente filmografia dedicata esclusivamente alle strategie dei combattenti del PKK e alle torture da loro subite sulle montagne della svariata geografia dei Paesi belligeranti.
La cinematografia di guerra aveva lasciato credere che l’azione bellica, espressa nella sua tragica realtà, rappresentasse quasi l’unico modo di vivere dei Curdi o, se vogliamo, l’unica modalità per incontrare questo popolo. Il seme portato dalla regista curda, invece, è sbocciato in questa quinta edizione, caratterizzata dalla testimonianza diretta degli autori. Prima fra tutte, quella del regista Kae Bahar, curdo iracheno, al quale il Festival ha dedicato la serata inaugurale. Giunto a Pordenone con il suo ultimo film, intitolato “I am Sami” (guadagnatosi una settantina di premi in tutto il mondo), direttamente dalla Regione Autonoma del Kurdistan e accolto da un messaggio particolare dell’Alto Rappresentante del Kurdistan in Italia, Bahar è stato anche autore del recente, bellissimo volume “Lettera da un Curdo”, in via di traduzione in Italia da Marco Rotunno, che sta interessando vari editori nazionali. Bahar ha finalmente parlato della cultura curda. È stata un’autentica scoperta capirne le origini (spiegate, del resto, nel libro “Kawa il Kurdo” di Sandrine Alexie, bibliotecaria dell’istituto curdo di Parigi e presentato a Pordenone dalla sua traduttrice, Laura Anania), la filosofia, la storia millenaria, i vari culti religiosi. L’esposizione del regista ha incantato il pubblico.
Una sorta di rito liberatorio dell’idea che i Curdi siano quelli che sanno soprattutto usare le armi.

Non solo combattenti
A dire il vero, che i Curdi sappiano combattere è palese agli occhi di tutti per ciò che sta accadendo con l’Isis. Ora, però, sappiamo anche che questi guerrieri, che avevano deposto le armi nel 2013, potendo, in tal modo, festeggiare il capodanno(Newroz) dopo molti anni con la speranza di vedere riconosciuta,straordinaria storia, di cui non si parla mai, ed una letteraturaricca che è possibile incontrare ed apprezzare attraverso varie e mirate pubblicazioni. Non si può negare che la rappresentazione filmica, attraverso le varie situazioni di guerra, abbia comunque testimoniato, oltre all’evento bellico, anche storia, ispirazione, ideali e ciò che meglio indica il profilo di un “Paese che non c’è”. Tuttavia, approfondire le istanze attraverso il patrimonio collettivo di una comunità senza Patria e in condizione di non violenza è davvero molto affascinante. Bahar, di cui è presente una lunga ed interessante intervista ad opera della giornalista Clelia Delponte sul sito dell’associazione “via Montereale” (www.viamontereale.org), ha raccontato anche la condizione di quel piccolo esercito al femminile impegnato contro l’Isis. Un aspetto assolutamente inedito per il mondo islamico: come suggerisce il Corano, “non è onorevole perire per mano di donna, la qual cosa è pregiudizievole per andare in Paradiso”. Un modo per far scappare il nemico.

Approfondire la condizione dei diritti umani
Abbiamo accennato al fatto che l’edizione 2015 ha portato a Pordenone testimonianze dirette. Una di queste si è tenuta ad opera della Coop Noncello di Pordenone, appena rientrata da Kobane dopo un’esperienza consumata in un campo profughi con la collaborazione di Uiki Onlus. Anche in questo caso, un breve, ma significativo documentario di Nicola Giordanella, intitolato “Kurdistan chiama Kobane a pochi metri”, ha spiegato la condizione dei profughi al di là di quanto generalmente si sente dai media occidentali, alcuni dei quali, peraltro, hanno la colpa di spiegare gli avvenimenti geopolitici che ci circondano con mancanza di approfondimento giornalistico. Infine, un’altra testimonianza diretta, quella dell’Italiano di Beirut Federico Dessi (coordinatore della rete Focus on Syria) e Justin de Gonzague, autori del documentario “Due Paesi, un esilio”. Il filmato approfondisce la lacerante condizione dei Curdi siriani a fronte del conflitto e dell’esodo. In altre parole, come si sente e cosa pensa un Curdo siriano in questa circostanza? Si sente più Curdo o più Siriano?
In un certo senso, il quesito affronta il tema dei diritti umani, più che l’evento bellico, dando spazio all’anima di un popolo più che all’espressione del combattente e della sua vita solitaria.
Date le ristrettezze in cui vive oggi l’attività culturale in genere, la sopravvivenza del Festival del cinema curdo di Pordenone è affidata alla sensibilità di tutti, dalle istituzioni ai privati. Certo è che rimane ancora molto da indagare sulla civiltà curda. Ecco perché la kermesse pordenonese dovrebbe diventare non solo un appuntamento cinematografico annuale, ma anche raccogliere e presentare tutte le espressioni artistiche di questo popolo partendo proprio da Kawa, mito di fondazione dei Curdi, un capolavoro della tradizione orale finalmente trascritto per accrescere il patrimonio dell’umanità che definisce la nostra vera natura, provenendo dall’antica memoria.

di Ludovica Cantarutti, giornalista e curatrice del Festival

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