Le ricette? Più decoro e dignità

Una percentuale da spavento: il 70% del popolo carcerario torna a delinquere. Ma che rieducazione è? Il mio obiettivo, il mio eventuale successo, sarà quello di abbassare questa tragica percentuale.

Pino Roveredo

AGiornalista, scrittore e anche Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive delle libertà personali. Per comprendere il percorso di Pino Roveredo è necessario partire dalla sua biografia: la nascita a Trieste, l’esperienza all’Ente comunale di assistenza, il carcere…
Che impatto ha avuto sulla sua vita l’incontro con Basaglia? Che ricordo ha di lui?
“L’ho visto tre volte. Ricordo una partita a scacchi nel reparto in cui ero ricoverato. Rammento poche parole, ma un’intensità incredibile nel suo sguardo. Molto più preciso il ricordo della sua “rivoluzione” culturale, che mi ha visto partecipe insieme a molti ragazzi costretti a vivere il distacco di un’emarginazione. La nascita di Marco Cavallo, l’apertura del teatrino, i passaggi di Dario Fo, Gino Paoli, un giovanissimo Franco Battiato, la musica vocale di Demetrio Stratos e degli “Area”.
Scosse culturali che hanno risvegliato la forza dell’entusiasmo e dell’emozione, salvandoci dalla micidiale trappola dell’apatia”.
In che modo l’esperienza in carcere e la dipendenza hanno influenzato la sua scrittura?
“Grazie al privilegio di aver avuto due genitori sordomuti, grazie, quindi, al linguaggio dei segni, ho iniziato a scrivere fin da bambino. Ho scritto sempre, di tutto. Poi è arrivato il percorso degli  inciampi, i ricoveri psichiatrici, il carcere.
Lì la scrittura è diventata essenziale, vitale, salvifica, un’autentica terapia. Dentro, il coraggio di confessarmi il peso dello sbaglio e la spinta verso una rinascita”.
Lei prende parte a progetti sviluppati all’interno del carcere che coinvolgono i detenuti. Di cosa crede abbiano davvero bisogno?
“Di sentirsi accettati da una società che, spesso, li marchia a vita e li distrugge. Se si riconosce loro la colpa dello sbaglio e si assegna la giustizia di una condanna, è anche giusto riconoscere l’estinzione di un prezzo e concedere l’opportunità di ripartire verso il diritto ad una vita normale.
Troppi sono morti o hanno continuato a sbagliare perché incapaci di sopportare l’infamia dell’ex carcerato”.
A suo parere, ascoltando o percependo le storie dei detenuti, quanto la famiglia influenza il modo in cui essi affrontano la detenzione?
“Gli affetti rappresentano gli unici agganci con la vita che gira intorno alle sbarre. Affetti che, spesso, sono costretti a pagare la condanna dei loro cari. Affetti che hanno l’età di madre, sposa, figlio, e che, spesso, devono sopportare la fatica vergognosa di essere puntati da troppe ristrettezze mentali. Poi, c’è l’altra faccia della medaglia: parlo di chi ha dovuto sopportare il danno del reato. In questi anni, più volte siamo riusciti a far incontrare la vittima del reato con la causa del danno e più volte si è trattato di incontri importanti, sia per la paura della vittima, sia per la riflessione del colpevole”.
Ritiene che l’ambito familiare sia in qualche modo collegato ai motivi per cui si finisce in carcere?
“Credo che la più grande sciocchezza, o l’alibi più comodo, se non in casi eccezionali, sia quello di trovare un pretesto al reato. Per salvarsi bisogna maturare la consapevolezza del proprio errore.
Solo così si riuscirà a comprendere lo sbaglio e aprire uno squarcio verso la rinascita”.
Da cosa nasce l’esigenza di impegnarsi in prima linea per la difesa dei diritti delle persone detenute in carcere?
“Io – lo ribadisco anche nelle gratificazioni per il mio impegno sociale – lo faccio per puro egoismo. Mi occupo degli altri per continuare ad occuparmi di me stesso, per non dimenticare. Insomma, mi salvo salvando. Una soluzione che, da anni, mi ha tolto l’inciampo dal percorso e continua a spingermi verso la voglia assoluta di riscatto”.
Quali sono i suoi principali obiettivi in quanto Garante? E le maggiori soddisfazioni raggiunte?
“Il mio obiettivo è quello di garantire il giusto decoro e la giusta dignità ad una condanna. Non si può pensare di rieducare una persona costringendola all’imbarbarimento di una pena. Penso agli edifici fatiscenti, con poca aria e nessuno spazio, alla mancanza di socialità, alla carenza di percorsi che possano preparare le persone ristrette al reinserimento nella società.
Una percentuale fa spavento: circa il 70% del popolo carcerario torna a delinquere. Ma che rieducazione è? Ecco, il mio obiettivo, il mio eventuale successo, sarà quello di abbassare questa tragica percentuale”.

Quali sono gli obiettivi per il futuro? Cosa si augura per il sistema penitenziario italiano?
“Mi auguro che la società, soprattutto il mondo politico, si renda conto che queste persone sono recuperabili, basta un po’ di volontà. Nel mio periodo peggiore, ricordo che una figura giuridica aveva pronosticato la mia irrecuperabilità. Invece, alla faccia del suo errore, io sono ancora qua a parlare di vita…”.

di Pino Roveredo,

giornalista e scrittore (intervistato da Gabriella Russian)

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