IL FILM: da Shakespeare a Rebibba

Ilaria Liprandi

ImmagineAnche un detenuto, su cui sovrasta una terribile pena, resta un uomo, grazie alle parole sublimi di Shakespeare”. Con queste parole, Paolo Taviani festeggiò l’Orso d’Oro ricevuto a Berlino tre anni fa per il film “Cesare deve morire”. Girato in sei mesi nel braccio di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, “Cesare deve morire” è una pellicola situata in bilico fra il documentario ed il film. Narra la preparazione della tragedia shakespeariana Giulio Cesare messa in scena da un gruppo di detenuti. I registi Vittorio e Paolo Taviani portano in carcere Shakespeare ed anche gli spettatori. Fra le sbarre delle celle e le storie di vita dei carcerati, il film mescola le scene della rappresentazione teatrale con i trascorsi reali dei detenuti-attori. Essi raccontano se stessi ed anche gli errori commessi. Il carcere, definito dai fratelli Taviani “materia umana dolorosa”, diventa ambientazione simbolica grazie ad un uso coraggioso (e mai vezzoso) del bianco e nero. Una luce a tratti grave ed epica trasforma i corridoi del braccio di massima sicurezza nelle strade della Roma in cui camminano e parlano Bruto e Cassio. I detenuti diventano attori due volte: protagonisti del documentario ed interpreti del componimento shakespeariano, di cui hanno anche tradotto i testi nei loro dialetti d’origine. Bruto, Cassio e Cesare parlano così in pugliese, siciliano, napoletano. L’opera del bardo inglese racconta di uomini d’onore e dotati di potere, violenza, complotti, tradimenti. Queste tematiche prendono vita sul palco del carcere: passano da un freddo testo teatrale all’incarnazione viva attraverso le parole ed i gesti di uomini (…). Tutto è meno limpido perché meno studiato.
Ma tutto è molto più diretto ed intenso, giunge dritto al cuore dello spettatore. Non si apprezza la maestria dell’attore, ma il significato delle parole (e questa, forse, è la vera maestria). I Taviani hanno avuto la forza di distruggere un classico per ricostruirlo nelle celle di Rebibbia e renderlo, così, davvero prossimo e contemporaneo. Shakespeare recitato dai detenuti costituisce un momento di catarsi: la tragedia assolve la sua funzione più storica ed autentica e libera le coscienze di tutti, interpreti, carcerati, spettatori (…). Il teatro è l’unica “evasione” consentita: un esercizio di libertà nel luogo che nasce con il solo scopo di negarla. Per un attimo, i detenuti si liberano del fardello delle loro colpe e restano solo personaggi: usano i loro sentimenti e le loro esperienze per arricchire di pathos ogni frase e così, un po’ come in Pirandello, non si sa dove finisca l’attore, la maschera, ed inizi l’uomo (…).

da un articolo di Ilaria Liprandi pubblicato su Socialnews nel 2012

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