La Rete e le nuove tecnologie per il mantenimento dell’identità del detenuto

Skype può rappresentare la soluzione all’assenza di affettività consentendo ai detenuti di mantenere costanti rapporti audiovisivi con i propri familiari.

Gabriella Russian

ImmagineNella scelta del tema sul quale sviluppare una riflessione non ho avuto dubbi. Si tratta di uno dei primi aspetti che ho notato, sentito e che mi ha rattristato all’interno del carcere: la mancanza di affetto e la lontananza dei detenuti dalle proprie famiglie rappresentano, a mio avviso, la principale nota dolente del sistema penitenziario italiano.
Non mi riferisco alla distanza geografica, per ovvie ragioni esistente, ma alla scarsità, se non proprio all’assenza, di contatti che i detenuti possono intrattenere con i propri cari.
Internet viene oggi considerato lo strumento più avanzato dello sviluppo tecnologico ed economico. Insieme alle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, rappresenta la svolta nei processi di comunicazione, la diffusione e la costruzione di informazioni, lo scambio e l’offerta di una moltitudine di servizi ed un terreno di opportunità progressivamente ampliatosi. Rappresenta, inoltre, un’occasione nell’ambito della formazione, della coesione e della mobilitazione sociale. Senza dubbio, la Rete costituisce la più ampia risorsa di informazioni al mondo e il suo spazio illimitato consente al meccanismo delle comunicazioni di raggiungere qualsiasi parte del pianeta.
Altrettanto innegabile è la presenza di fattori che influiscono sulla riuscita delle opportunità offerte dalla Rete e dalle nuove tecnologie, come l’accesso alla Rete stessa e la sua fruibilità, ovvero le competenze necessarie al corretto utilizzo degli strumenti e la conoscenza delle diverse opportunità da esse offerte.
Il punto è che questo conclamato spazio globale e comune non è, però, usufruibile da tutti allo stesso modo, accentuando, così, una netta distinzione tra coloro i quali possono trarre vantaggio dall’uso di Internet e delle nuove tecnologie e coloro i quali, invece, ne sono esclusi. In particolare, i detenuti rappresentano una categoria sociale che potrebbe trarre un chiaro vantaggio dall’utilizzo della Rete. Questa potrebbe costituire la risorsa idonea a garantire loro il mantenimento delle relazioni affettive, giacché, per motivi differenti, i detenuti non sono sempre geograficamente vicini alle rispettive famiglie. Non ci si riferisce soltanto ai detenuti stranieri, i quali, comunque, rappresentato una percentuale significativa della popolazione carceraria. Prendendo, infatti, in riferimento i dati aggiornati al 15 agosto 2015, i detenuti presenti sul territorio nazionale sono 52.389, 2.131 dei quali donne e 17.304 stranieri, il 33% della popolazione totale.
I detenuti rientrano, così, nella cosiddetta famiglia transnazionale, quella i cui membri sono separati geograficamente per un considerevole periodo di tempo. La percezione di un’atipicità nel funzionamento di queste famiglie è spesso legata “…al senso di vuoto che deriva dalla partenza di quella che, in quasi tutte le culture, è percepita come la principale caregiver nei confronti dei figli, la madre biologica”. Naturalmente, non si intende minimizzare il ruolo e l’importanza degli altri componenti. È in relazione a questa assenza che si struttura il tema delle famiglie transnazionali, il loro carico di sofferenza e le pratiche di compensazione della perdita di affetto cui danno vita.
Come è noto, la separazione alimenta dinamiche di cambiamento a diversi livelli, da quello demografico-politico a quello socio-culturale, su scala globale e locale. Si originano, così, nuove identità, nuovi spazi di relazione, negoziazioni di significato e valori. Un allontanamento, forzato o volontario, comporta, in ogni caso, un graduale ingresso nel nuovo ambiente, spesso lungo e complicato. Le difficoltà possono condizionare l’adattamento, i rapporti con i “nuovi” conoscenti e con la propria famiglia. La presenza di quest’ultima può diventare fondamentale per la stabilità psicologico-emozionale e per le dinamiche di adattamento. Senza tralasciare il fatto che, durante un arco di tempo considerevole, le persone inserite in gruppi e contesti differenti da quelli di provenienza ricostruiscono e rielaborano il proprio mondo producendo un processo di acculturazione che comporta, inevitabilmente, un cambiamento a livello individuale e collettivo ed una nuova identità, intesa come coscienza di essere e appartenere.
A questo proposito, l’apporto di Van Dijk è utile per comprendere come la permanenza di individui all’interno di un gruppo porti a sviluppare una propria ideologia d’appartenenza, differente da quella esistente prima di entrare a far parte del gruppo. Il detenuto rientra appieno in una possibile collettività di attori sociali che va a formare un gruppo. Poiché le ideologie si rappresentano come forme mentali di identificazione, diventa indispensabile il contatto con il proprio nucleo familiare o con conoscenti stretti per mantenere viva anche l’identità pre-partenza e pre-reclusione, ciò che Schnapper ha definito il “nucleo duro dell’identità”, il rispetto delle proprie origini e il mantenimento simbolico delle tradizioni più radicate. Va sottolineato che la lealtà e la partecipazione alla vita del gruppo familiare di origine, della rete di parentela di riferimento e del Paese di provenienza in genere non limitano, né ostacolano l’aperta percezione del nuovo mondo elaborata nel corso della propria esperienza. Appare chiaro che la globalizzazione attraversa anche le relazioni familiari, nella loro concettualizzazione (famiglie transnazionali) e nel modo di relazionarsi dei suoi membri grazie all’introduzione delle TIC. Queste hanno, infatti, permesso l’intensificazione delle connessioni nel tempo e nello spazio. È, dunque, fondamentale il mantenimento delle relazioni con il proprio nucleo familiare, nel tentativo di costruire una nuova identità e per mantenere il proprio ruolo all’interno della famiglia: una madre deve rimanere una madre, un figlio deve rimanere un figlio e così via. Seguendo tale principio, bisognerebbe cominciare a considerare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie in un’esperienza, quella della detenzione, che può connotarsi come accrescimento personale, ma anche come sradicamento, isolamento e marginalità e che può compromettere fortemente la piena realizzazione personale nel futuro. A mio avviso, il mantenimento costante delle relazioni può salvaguardare la dispersione dell’identità personale ed alleviare il possibile rapporto tormentato con la società ricevente, senza tralasciare tre caratteristiche fondamentali della famiglia transnazionale: la famiglia transnazionale rappresenta spesso una fase di un percorso familiare che termina con il ricongiungimento; le relazioni che coinvolgono la famiglia transnazionale si instaurano prima con la famiglia vissuta prima della partenza, poi con quella incerta ed astratta vissuta durante l’allontanamento, infine con quella ricongiunta, diversa da entrambe le precedenti; la famiglia transnazionale unisce la difficoltà del ricongiungimento alla possibilità di ruoli differenti rispetto a quelli precedenti alla partenza. Concludendo, vorrei soffermarmi proprio sulla negazione, o parziale concessione, delle relazioni affettive per chi versi in una situazione di detenzione. La circostanza esercita ricadute sull’identità dei soggetti, continuamente sottoposta all’influenza della cultura carceraria, ovvero quella creatasi tra gli appartenenti alla comunità carceraria e che oltrepassa le regole penitenziarie. Ciò si traduce in un alto rischio di smarrimento dell’identità personale, tutelabile, invece, con relazioni più frequenti con i propri affetti. A ciò vanno aggiunti il problema del sovraffollamento, la notevole percentuale di detenuti provenienti da nazionalità diverse e la crisi del welfare state, che ha coinvolto i servizi a favore dei detenuti rendendo ulteriormente difficoltosa la realizzazione di un modello penitenziario avanzato e la tutela dei più elementari diritti delle persone recluse. La negazione dell’esperienza affettiva incide negativamente sulla psicologia della persona reclusa, influenzando, a sua volta, un ulteriore diritto fondamentale, quello della genitorialità. È utile ricordare, infatti, che la detenzione non è un’esperienza unidirezionale, in quanto coinvolge ed esercita ripercussioni su più aspetti della vita, tra i quali il contesto sociale e affettivo di appartenenza. Le nuove tecnologie e la Rete potrebbero risolvere parzialmente il problema. In particolare, Skype potrebbe rappresentare la soluzione a questa assenza di affettività, consentendo ai detenuti di mantenere costanti rapporti audio-visivi con i propri familiari. Di sicuro ciò non sostituirebbe il calore fisico e umano, ma consentirebbe loro, almeno, di vivere le espressioni, i sorrisi, i cambiamenti delle persone a loro care. Essi potrebbero, inoltre, essere percepiti come più presenti dai propri figli.

di Gabriella Russian

responsabile dei progetti nelle carceri per @uxilia Italia

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