I bambini mai nati nel Sud est asiatico, Balcani, Caucaso meridionale

Il triste primato degli aborti selettivi spetta storicamente alla Cina, ma a partire dagli Anni 90 il fenomeno ha trovato terreno fertile In Albania, Montenegro, Kosovo, Armenia, Azerbaijan e Georgia.

di Marta Regattin

Negli anni ’80 si parla per la prima volta di “genericidio”, l’uccisione sistematica e deliberata in base al sesso del feto, praticata soprattutto mediante aborto selettivo.

Si parla di genericidio quando il coefficiente di nascite maschi/femmine si discosta molto dalla norma: in natura, una leggera disparità a favore dei maschi è normale (nascono 105 maschi ogni 100 femmine) ed è probabilmente legata al fatto che i maschi siano più deboli rispetto alle femmine nella fase prenatale e durante i primi anni di vita. Dagli anni ’80, in alcuni Paesi del sud est asiatico, quali Cina, India e Repubblica di Corea, si sono registrati forti sbilanciamenti, ben oltre il livello fisiologico di 105. Ancora oggi la Cina è in testa alla classifica degli aborti selettivi. Nei casi asiatici, il fenomeno è stato collegato al contesto discriminatorio, economico e sociale, all’interno del quale la donna è considerata inferiore all’uomo. In Cina, emerge, soprattutto, il divieto di avere più di un figlio; in India, il costo proibitivo per garantire la dote ad una figlia.

Dagli anni ’90 si sono registrati dati allarmanti in nuovi Paesi: Albania, Montenegro, Kosovo, parte della Macedonia e, soprattutto, Armenia, Azerbaijan e Georgia. Lo sbilanciamento nelle nascite appare maggiormente significativo nei Paesi del Caucaso meridionale, mentre il fenomeno è presente, ma in forma meno grave, nei Balcani occidentali.

L’anomalia del Caucaso meridionale, in cui, tra il 2000 e il 2010, si è toccato il picco di 120 maschi ogni 100 femmine, è difficilmente interpretabile. Dati simili non sono stati registrati nei Paesi confinanti (Russia, Turchia, Iran), né nelle Repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale. Il fenomeno, dunque, non accomuna i Paesi ex-Urss, né è imputabile esclusivamente ad una cultura maschilista. I tre Paesi nei quali il fenomeno si è verificato e sviluppato contemporaneamente, inoltre, possiedono certamente molte caratteristiche comuni, ma anche ovvie e notevoli differenze linguistiche, religiose ed etniche.

È possibile individuare alcune tra le probabili cause della “moderna” selezione del sesso?

Essa avviene dove è vantaggiosa, in società caratterizzate da disuguaglianza e stereotipi di genere. Secondo Nino Modebadze (capo redattrice georgiana di Ginsc.net, portale di informazione su questioni di genere in Caucaso), il fenomeno rappresenta una conseguenza della forte disuguaglianza sociale tra uomini e donne: “…nella nostra società la donna continua ad essere ritenuta una figura di secondo piano, sono differenti le possibilità di carriera e gli stipendi”. La Georgia è, infatti, ultima tra i Paesi Ocse per rappresentanza di donne nei parlamenti nazionali (9 su 138). “E’ un problema così radicato nella società che non vi è desiderio di parlarne, non vi è consapevolezza, nei media non se ne parla affatto”.

In Armenia, Azerbaijan e Georgia, dopo il crollo dei regimi comunisti, a causa dell’indebolimento delle istituzioni governative e dei servizi pubblici e della diffusione del sistema di mercato, in un periodo di smarrimento, incertezza del contesto economico e sociale e perdita di riferimenti, si sarebbe rafforzata la tradizionale famiglia patriarcale, con i suoi valori, diventando la più importante istituzione sociale esistente. In questo contesto, si è rafforzata l’utilità dei figli maschi, che rappresentano una fonte di protezione e sostegno.

La selezione del sesso avviene, inoltre, in società nelle quali è possibile l’accesso a moderni metodi che permettano di conoscere prima della nascita il sesso del bambino ed interrompere senza grossi rischi la gravidanza: alla fine degli anni ’70 sono state introdotte nuove tecniche riproduttive grazie anche alla liberalizzazione dell’aborto: la maggiore disponibilità e diffusione delle tecnologie di diagnosi prenatali, raramente accessibili sotto il regime, insieme alla “cultura dell’aborto” ereditata dal periodo sovietico, hanno fornito alle famiglie nuove vie per evitare la nascita di femmine non volute.

La selezione del sesso rappresenta anche una strategia efficace per aggirare il rischio di non avere figli maschi, aumentato, in queste società, a causa della riduzione della fecondità e del notevole ridimensionamento della famiglia media: nel contesto attuale, un genitore che desideri un figlio maschio sa di non poter permettersi di sbagliare.

Queste tre condizioni si realizzano simultaneamente nei Paesi caucasici dei primi anni ’90 e ancora oggi non sono superate.

Quali sono le conseguenze della riduzione della popolazione femminile?

Secondo Doris Stump (membro del National Council e del partito socialista svizzero) “…la selezione prenatale del sesso del nascituro deve essere condannata in quanto fenomeno che trova le sue radici nell’ineguaglianza di genere e rinforza un clima di violenza contro le donne, ha conseguenze dannose, incluse sproporzioni nella popolazione, aumento della criminalità, disagio sociale e un aumento del rischio di violazione dei diritti umani, quali il trafficking a scopo di matrimonio o sfruttamento sessuale”.

Le conseguenze sono notevoli sul piano demografico e su quello sociale ed economico: un eccesso di uomini significa, infatti, un aumento della competizione tra i non sposati (sempre di più) a discapito di quelli più vulnerabili (i più poveri, i meno istruiti, coloro i quali provengono da aree remote) ed un incremento delle violenze di genere e dello sfruttamento della donna (ad esempio, una maggiore pressione su di essa a sposarsi e a generare figli). Rafforza, inoltre, società patriarcali fondate sulla discriminazione di genere, intensificandola in tutti gli ambiti della vita e mettendo, così, in evidenza le carenze di Democrazia.

Il primo passo per affrontare il problema è prenderne coscienza e parlarne. In alcuni Paesi è stato compiuto qualche passo in avanti, soprattutto laddove il problema è radicato nella società da più tempo: in Cina, con la campagna Care for girls, mirata a sensibilizzare sul tema della disuguaglianza; in India, con il programma Balika Samriddhi Yojana, che fornisce aiuti economici per l’istruzione delle ragazze provenienti da famiglie povere; in Corea, grazie al sostegno della parità di genere da parte dello Stato con l’introduzione di nuovi schemi che supportano le bambine e le giovani donne.

Anche in Georgia, in questi ultimi anni, è stata approvata una legge per le pari opportunità, ma il Paese è ancora lontano dall’accettare un dialogo aperto e informato sul problema.

Recentemente, la “Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere” dell’Unione Europea (la questione è stata denunciata da un rapporto presentato all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa da Doris Stump nel 2011) ha ribadito la necessità di creare un ambiente sociale educativo in cui non avvengano discriminazioni di genere e nel quale si promuovano immagini non stereotipate di donne e uomini.

La diffusione, inoltre, di politiche di sussidio a favore di giovani donne (sostegno economico alle ragazze e ai loro genitori come borse di studio o benefit) nonché l’elaborazione di leggi e riforme nei settori del diritto di proprietà, di successione, della dote, della protezione finanziaria e sociale per gli anziani e riguardo all’accesso al mondo del lavoro e all’istruzione, ridurrebbe la preferenza verso il figlio maschio spingendo la società verso il superamento dei pregiudizi di genere.

Un’inversione di tendenza sarà, dunque, possibile grazie ad azioni di sostegno, misure politiche e buone prassi educative.

 Marta Regattin, collaboratrice di Socialnews

F. Meslé, J. Vallin, I. Badurashvili, “A Sharp Increase in Sex Ratio at Birth in the Caucasus. Why? How?”, in Watering the Neighbour’s Garden, Attané. I. e CZ. Guilmoto (eds.), Paris, CICRED,

Marta Regattin

Nata a Udine il 14/03/1995 e residente a Padova, dopo la maturità scientificasi è iscritta al corso “Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani” all’Università degli Studi di Padova che sta attualmente frequentando. Collabora con SocialNews da marzo 2015, contribuendo alla realizzazione della rivista cartacea. 

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